mercoledì 24 febbraio 2010

Incidenti di Percorso (1)

Nel mondo cosiddetto "sviluppato" la strada è quella linea che unisce due luoghi. Non ha alcun significato intrinseco se non quello di condurre da qualche parte. Nella maggioranza dei casi è una perdita di tempo necessaria per raggiungere il luogo di lavoro o una sospirata meta vacanziera. In Africa non è quasi mai così. Ogni chilometro ha un proprio senso preciso in quanto può nascondere un insegnamento da ricordare o un ostacolo da superare. L'impossibilità di procedere è generalmente il motore di esperienze che si vivono lungo la strada, impone la sosta e prepara il terreno all'imponderabile, al caso ed al destino.



Un episodio emblematico avvenne la prima (sottolineo "la prima") volta che mi recai al villaggio sede del progetto. All'epoca frequentavo il corso di kiswahili che si svolgeva dal lunedì al venerdì ad Iringa. Invece di crogiolarmi per tutto il weekend nella vita cittadina preferii recarmi nel luogo in cui avrei vissuto per due anni, impaziente di gettarmi nella mischia. Decisi (non che avessi altra scelta) di arrivarci con l'autobus scalcinato che ogni giorno percorre la tratta Iringa-Bomalang'ombe. Era l'inizio della stagione delle piogge, ma all'epoca ancora non sapevo cosa ciò potesse comportare. Il viaggio fu molto interessante, dato che ebbi modo di studiare tutto il percorso e i caratteristici villaggi che si succedevano. Pranzai con un'ottima pannocchia abbrustolita acchiappata al volo durante una delle numerose e lunghe soste, studiate senz'altro più a favorire il commercio degli abitanti dei villaggi che a consentire la discesa e la salita dei passeggeri, operazione che si svolgeva nell'arco di un paio di minuti. La cosa curiosa era che ogni villaggio era specializzato in una particolare merce: c'era il villaggio della frutta, quello dei pomodori, quello delle pannocchie, ecc. Come se fosse stato stabilito un tacito accordo di non belligeranza commerciale tra i diversi villaggi. Nel corso degli anni avrei poi imparato ad apprezzare il progressivo variare delle merci vendute in virtù del succedersi delle stagioni che influivano sulle produzioni agricole disponibili.

Dopo circa quattro ore dalla partenza, arrivati a Kidabaga, l'autobus si fermò. Kidabaga era (ed è tuttora) un grosso villaggio che si trovava a trenta chilometri dalla mia meta e che segnava il confine tra la pista in buone condizioni e quella meno battuta.

All'inizio valutai che si trattasse di una delle classiche e interminabili soste che avevano costellato il percorso, ma quando rimasi l'unico passeggero capii che qualcosa non andava. Con un kiswahili stentato (avevo alle spalle solo una settimana di lezione) capii, o meglio intuii, che la strada da Kidabaga a Bomalang'ombe era troppo brutta, che l'autobus non poteva farcela e si sarebbe di certo impantanato. A Kidabaga non esistevano luoghi che ritenessi adatti a dormire (ma questa valutazione era destinata a cambiare radicalmente con il passare del tempo) per cui cominciai a preoccuparmi. Trenta chilometri a piedi sono tanti, soprattutto di notte e senza conoscere la strada. Questo problema non affliggeva soltanto me, ma anche tutti i passeggeri che erano diretti nei villaggi oltre Kidabaga. A domanda, come sempre, corrispose un'offerta. Un abitante di Kidabaga improvvisò un mezzo di trasporto su cui ci propose di salire dietro, ovviamente, un ragionevole compenso. Si trattava di un trattore a cui venne agganciato un misero carro realizzato con un puzzle di pezzi di ricambio malamente assemblati. Sul fondo del carro vennero sistemati tutti i bagagli e sopra questi ci disponemmo noi passeggeri insieme ad alcune galline in gabbia. Tutta questa impalcatura cigolava e scricchiolava ad ogni metro, ed era immediatamente evidente che il carro si sarebbe schiantato di lì a poco. Prima del definitivo cedimento strutturale, che avvenne a circa dieci chilometri dall'arrivo, si ruppero per l'eccessivo peso tutte le ruote ad una ad una. Le camere d'aria vennero tutte aggiustate artigianalmente per poi proseguire ogni volta. Ad ogni pit stop la gente scendeva con calma e rassegnazione, e aspettava con pazienza il momento in cui si sarebbe ri-arrampicata sul cumulo di sacchi e bagagli per riprendere la marcia. Ad una decina di chilometri dall'arrivo, come detto, il carro collassò ed il semiasse cedette. Erano le undici di sera, era buio da diverse ore, e la gente ancora una volta scese per assistere alle operazioni di riparazione. Questa volta era evidente che senza l'aiuto di un meccanico vero non sarebbe stato possibile sistemare il carro, ma la maggior parte dei passeggeri volle negare l'evidenza ed attendere che si verificasse il miracolo ad opera dei nostri sprovveduti traghettatori. Io ero maledettamente stufo, e spiegai che avrei proseguito a piedi. Venni seguito soltanto da due donne che dividevano il peso di due bagagli ed un lattante. Io probabilmente fornivo loro un barlume di sicurezza, loro indicavano la strada. In due ore arrivammo al villaggio, ed all'una di notte, esattamente tredici ore dopo essere partito da Iringa, svenni esausto nel letto.


M.L.

mercoledì 3 febbraio 2010

La Festa del Maiale

Tradizionalmente in Romagna, nel pieno dell'inverno, la famiglia contadina viveva un vero e proprio evento che coincideva con l'uccisione e la macellazione del maiale allevato nel corso dell'anno precedente. Questo avvenimento si svolgeva nel cortile del casolare e coinvolgeva tutti membri della famiglia allargata, spesso una dozzina di persone e più. La lavorazione della carne era un'operazione specificatamente affidata agli uomini, mentre donne e bambini svolgevano un ruolo di servizio e soprattutto preparavano la cucina e la tavola per la grande mangiata finale.

La famiglia viveva una vera e propria festa, visto che tutti quel giorno mangiavano carne e altri alimenti che raramente erano a disposizione nel corso dell'anno.


Opera di Franco Vignazia


Ci sono famiglie, purtroppo poche, per le quali questa tradizione resiste e che non si accontentano dei salumi industriali che si trovano nei supermercati.

La famiglia di mia moglie è una tra queste e mio suocero è uno tra i pochi artigiani della carne rimasti. Durante l'anno, da Gennaio a Dicembre, alleva il maiale in un vecchio fabbricato adiacente alla casa e a Gennaio, quando l'animale ha raggiunto un peso di oltre due quintali, organizza la festa del maiale.


Nel corso di un freddo mattino domenicale, a partire dall'alba, convergono al casolare il macellaio (camionista di professione) e tutta una pletora di personaggi interessati a vario livello all'avvenimento. C'è Guerrino il lattaio che fornisce i formaggi per il pranzo e che prende parte a tutte le fasi di lavorazione semplicemente perché si diverte, c'è Ivan l'industriale con il Porsche bianco che guarda soltanto ma che è interessato ad acquistare i salumi, c'è Maraldi che non si sa bene che lavoro faccia ma che porta vino e allegria (e spera sempre che ci scappi qualche salame), ci sono i parenti di Bologna venuti per assistere a questa strana manifestazione di civiltà contadina tradizionale. Da qualche anno partecipo anch'io alle operazioni, completamente rapito dalla maestria che porta a trasformare un maiale in una sconfinata gamma di alimenti di vario aspetto e sapore.


Dalla lavorazione del maiale si ottiene infatti una moltitudine di prodotti, e cioè tagli di carne (pancetta, costine, filetti, braciole), insaccati freschi (salsicce, salsicce matte), insaccati stagionati (prosciutti, salami, cotechini, coppe, coppe di testa, guanciale, lombetto), insaccati cotti (musotto) e prodotti ottenuti dalla lavorazione del grasso (ciccioli, strutto). E' quindi pienamente giustificato il detto secondo cui "del maiale non si butta via niente".

Mentre gli uomini sono occupati nello smembramento della carcassa bevendo vino e schiamazzando, le donne in cucina mantengono il fuoco acceso e preparano (sempre a mano) la pasta al ragù per il pranzo. All'una, quando tutti gli insaccati sono stati chiusi ed appesi nella cantina, i ciccioli sono stati scolati e strizzati, e mentre gli ingredienti del musotto stanno cuocendo nel calderone sul fuoco, ci si riunisce tutti nella sala da pranzo a consumare il pasto preparato dalle donne ed accompagnato da tutto ciò che i convenuti hanno portato.


Non so esattamente cosa renda questa tradizione così affascinante. Probabilmente si tratta di qualcosa di atavico, insito nella natura umana, per cui l'uomo diviene cacciatore per provvedere il nutrimento alla propria famiglia. Ma non è solo questo. E' anche qualcosa che distingue la cultura italiana da ogni altra cultura al mondo. E' la trasformazione, attraverso un procedimento permeato di gusto estetico ed artistico, di un elemento grezzo della natura (l'animale) in qualcosa di più nobile, destinato al soddisfacimento del bisogno di alimentarsi ma anche al bisogno tipicamente italiano di farlo nel miglior modo possibile.


M.L.