martedì 29 novembre 2011

Il Museo Archeologico di Sarsina (2)

Uno dei pezzi forti del Museo di Sarsina è il "Trionfo di Dioniso", un enorme mosaico di 50 m2 appartenuto ad un'abitazione privata e datato III sec. d.C.
Il mosaico raffigura, nel suo elemento centrale, Dioniso su un carro trainato da tigri e governato da Pan e da un Satiro. Attorno all'elemento centrale vi sono vari animali europei tra cui un cervo ed un cinghiale ed altri esotici quali il leone, il leopardo, la faraona.
Tra le figure disposte in cerchio intorno al disegno principale c'è un uccello che ha attirato immediatamente la mia attenzione.
Questo uccello dalle ali azzurre, il petto viola e la striscia nera sull'occhio è sorprendentemente simile alla ghiandaia pettolilla (Coracias caudatus), uccello molto diffuso nell'Africa sub-sahariana.
La somiglianza a mio avviso non è casuale. Sarsina era un luogo di intensi traffici commerciali e i mercanti in transito da e per Roma provenivano da tutto il mondo conosciuto. Ciò che veramente lascia sbalorditi è che l'artista che ha eseguito il mosaico deve aver visto di persona questo uccello, perchè l'accuratezza dei dettagli è troppo elevata. Non è difficile quindi immaginare di un mercante nordafricano, solito trattenere contatti commerciali con le carovane che attraversavano il Sahara, che deve aver acquistato questo uccello in gabbia e tentato di vendere questa rarità sul mercato romano.
Nel mosaico è anche raffigurata un'antilope con le corna "a cavatappi". Qui il parallelismo è più facile, perchè senza troppa approssimazione deve trattarsi di un eland o taurotrago.
M.L.

Il Museo Archeologico di Sarsina

Il Museo Archeologico (Nazionale) di Sarsina è uno dei segreti meglio nascosti della Romagna. Per un Museo questa non è certo una nota di merito, ma un fatto innegabile è che gli stessi romagnoli non conoscono le meraviglie che vi sono celate all’interno.
Diversi pezzi conservati nel Museo di Sarsina meriterebbero sale a loro dedicate al Metropolitan di New York o al British Museum di Londra.
Le fotografie non rendono loro giustizia e soltanto di persona è possibile cogliere la loro magnificenza ed importanza.
Di fatto si tratta di uno dei musei della civiltà romana più importanti dell’Italia Settentrionale e dovrebbe costituire una meta obbligata dei giri turistici e delle gite scolastiche in queste zone. Così, purtroppo, non è.
La maggior parte dei reperti provengono dalla Necropoli romana di Pian di Bezzo, i cui scavi principali sono stati condotti tra il 1927 ed il 1933. Alcune interessanti fotografie dell’epoca documentano le condizioni in cui venivano svolti gli scavi.
Trattandosi di una necropoli, ne consegue che molti oggetti e strutture rinvenute fossero di carattere funerario. L’imponenza di alcuni mausolei racconta con chiarezza l’importanza e la ricchezza delle persone cui furono dedicati, e testimonia come Sarsina, un piccolo centro sull’Appennino romagnolo, in passato non fosse né piccolo né isolato ma anzi si trovasse al centro di remunerativi traffici commerciali.

Che l’antica Sarsina fosse una località di intensi scambi commerciali e culturali è testimoniato anche dalle statue raffiguranti divinità appartenenti ai culti romano, greco, frigio, egizio ed orientale.
Il pezzo forte della collezione è senza dubbio l’imponente mausoleo di Rufus del I secolo a.C. che raggiunge i 13,5 metri di altezza. La sua disposizione al fianco di una luminosa vetrata da cui traspare una chiesa posta nelle vicinanze del museo è incredibilmente suggestiva ed esalta le caratteristiche di questo stupendo monumento.
Il museo ripercorre inoltre numerosi aspetti della vita quotidiana del tempo, dall’arredamento delle case, al cibo, alle tradizioni, ad opere di ingegneria idraulica, fino all’arte ed alla poesia in cui i romani eccellevano.
Nella prima sala è esposto un cippo funerario intitolato a Marcana Vera, che in forma di acrostico riporta una poesia meravigliosa:
Ver tibi contribuant sua munera florea grata
Et tibi grata comis nutet aestiva voluptas
Reddat et autumnus Bacchi tibi munera semper
Ac levi hiberni tempus tellure dicetur

La primavera ti offra il suo contributo di doni floreali a te graditi
E la voluttà dell'estate si inchini a te gradita sotto il peso delle sue spighe di grano
E l'autunno ti riporti sempre i doni di Bacco
E allora perfino la stagione invernale per la terra che ti ricopre si dirà piacevole
In una sala del secondo piano sono raccolti alcuni reperti delle civiltà umbre pre-romane, tra cui spiccano alcuni bronzetti votivi rinvenuti nell’attuale campo sportivo di Sarsina.
M.L.

mercoledì 16 novembre 2011

Modigliani e l'Art Nègre

Mi sono sempre chiesto come mai le opere di Amedeo Modigliani suscitassero in me un fascino così potente. L’esibizione “il Mistico Profano” dedicata a Modigliani tenuta nel 2010 al Museo d’Arte Moderna di Gallarate ha chiarito definitivamente questo mio quesito.
Tutto ebbe inizio nel 1897 a Bruxelles quando, all’interno dell’Esposizione Internazionale, fu dedicato ampio spazio ad alcuni reperti del museo coloniale di Tervuren appartenente a Leopoldo II. Tali reperti erano stati, per così dire, prelevati dal tirannico monarca nel corso del suo esperimento di possesso privato ed esclusivo di uno stato, il Congo belga.
La sezione africana dell’esposizione internazionale ebbe immediatamente una fortissima eco nel panorama artistico mondiale. A venirne colpito fu soprattutto il centro dei principali movimenti artistici dell’epoca, Parigi. Il primo artista documentato a manifestare il suo interesse verso l’art nègre fu Maurice de Vlaminck, nel 1905. Da questo momento in poi questa tendenza si diffuse tra tutti i principali artisti presenti all’epoca a Parigi, da Picasso a Matisse. Il Primitivismo, e cioè l’adozione di alcuni dei canoni che contraddistinguono l’are africana ed in particolare maschere e sculture lignee,  pose così le basi per due movimenti che nacquero proprio in quel periodo, il Cubismo ed il Fauvismo.
In quegli anni Modigliani stava vivendo la sua parentesi da scultore e stava lavorando a stretto contatto con lo scultore rumeno Constantin Brânçusi, il quale aveva sposato con entusiasmo i principi del Primitivismo.
L’ art nègre insegnò ai principali esponenti della storia dell’arte occidentale una straordinaria capacità di sintesi formale, la semplificazione delle figure, ed un’espressività immediata
Questa influenza è molto evidente nei lavori di Modigliani scultore, ed è innegabile che questa fase influenzò in maniera determinante il  processo di maturazione che lo portò, dal 1915 in poi, ad acquisire quel proprio e inimitabile stile che tutti sappiamo riconoscere nei suoi meravigliosi ritratti.
La riduzione dei tratti e delle caratteristiche dell’immagine conduce Modigliani a eliminare tutto ciò che di superfluo esiste in un volto selezionandone gli aspetti essenziali. L’uso numericamente moderato di colori ma la loro applicazione al massimo dell’intensità possibile conferisce un aspetto quasi “digitale” alle sue figure, esaltandone nitidezza e chiarezza espressiva. 
La mia attrazione nei confronti dei dipinti di Modigliani è se possibile ancora lievitata da quando ho scoperto che, seppur attraverso un percorso tortuoso, essi trovano ispirazione nelle culture che abitano le foreste dell’Africa Centrale.
M.L.

mercoledì 26 ottobre 2011

Kilwa

Quando mi sono trovato di fronte, durante la vista della sezione Africana del British Museum, a cocci di ceramica provenienti da Kilwa Kisiwani, in Tanzania, sono rimasto di stucco. Sapevo che Kilwa era un luogo di interesse storico rilevante per la Tanzania, ma non immaginavo che lo fosse a tal punto da dedicargli una teca nel prestigioso museo archeologico londinese. Di fronte a quei pochi e incompleti reperti, ho ripensato a quei giorni di ottobre di tre anni fa durante i quali, insieme ad una coppia di amici, siamo partiti alla scoperta di questa località così importante per la storia dell’Africa orientale e così ignorata dal turismo internazionale.

Dopo aver noleggiato un auto a Dar es Salaam, un piccolo fuoristrada con il cambio automatico assolutamente inadatto all’itinerario che stiamo per affrontare, partiamo all’alba di un sabato di ottobre. La strada che da Dar es Salaam conduce a Kilwa è di per sé un’esperienza che va vissuta ed assaporata con i tempi giusti e senza fretta. Si tratta della strada costiera che conduce fino in Mozambico, percorsa regolarmente da autobus che hanno passato da tempo l’età della rottamazione. Essi impiegano, a causa delle pessime condizioni della strada e dei numerosi villaggi in cui sostano moltissimo tempo per raggiungere Kibiti, Kilwa, Lindi, Mtwara e poi il Mozambico.
Fino a Kibiti,a circa tre ore dalla capitale, la strada è stata asfaltata da poco ed è un lungo rettilineo che fende la vegetazione tropicale, gli imponenti manghi e gli alberi di quello strano frutto che è l’anacardo.
Dopo Kibiti si attraversa il nuovo ponte sul Rufiji, dedicato all’ex presidente Mkapa, il quale permette di evitare il passaggio del fiume a bordo di lente e pericolanti chiatte, che era la norma fino a pochi anni fa.
Dopo il ponte la strada si trasforma in una pista polverosa (se è la stagione secca) o fangosa (se è tempo delle piogge); in entrambi i casi la sua superficie si presenta sconnessa e malandata al punto che in molti tratti si rinuncia allo slalom per evitare le buche e ci si getta rassegnati in questi avvallamenti a spese di ammortizzatori e lombalgie.
In questo tratto (due ore, se non ricordo male), si incontrano di frequente babbuini e altri animali selvatici come i kudu. Non siamo lontani dalla Riserva del Selous e anche gli incontri con i leoni non sono rari. E’ questa infatti la zona dell’Africa dove si registrano i maggiori decessi causati da attacchi di leoni. Consapevoli di questi episodi, ogni sosta per acquistare un casco di banane o per distendere le membra doloranti è vissuta con grande attenzione al paesaggio circostante.
Dopo un lungo tratto di buche, polvere e disagi, improvvisamente il paesaggio si trasforma radicalmente al punto che si ha l’impressione di essersi addormentati e risvegliati in un'altra parte del mondo. La strada diventa asfaltata e addirittura compaiono le righe ai bordi e al centro della carreggiata, fa la sua apparizione una segnaletica stradale incredibilmente dettagliata, avvistiamo i cartelli che riportano i nomi delle cittadine che attraversiamo, le capanne lasciano il posto a case in muratura ed intonacate, la strada è accompagnata da pali della luce e paletti chilometrici.
Ripresi dallo sgomento iniziale tiriamo un sospiro di sollievo per l’improvvisa comodità del viaggio. Pensiamo che un giorno i due tratti asfaltati si congiungeranno, ma fino ad allora si continuerà ad assistere a questo avvicendamento di paesaggi possibile solo in Africa.
La strada comincia a scendere e scorgiamo il mare. Stiamo per arrivare a Kilwa Masoko, il luogo dove ci tratterremo per due notti. Questa località è il punto di partenza per le esplorazioni delle altre due Kilwa, Kivinje e Kisiwani, le due mete di interesse storico e turistico.
Dopo circa sei ore dalla nostra partenza giungiamo a Kilwa Masoko e ci mettiamo subito alla ricerca di una sistemazione per la notte. Purtroppo, il mancato sviluppo del turismo comporta anche una scarsa disponibilità di alloggi per gli occidentali. Di fatto Kilwa è divenuto una meta per turismo di elite, per chi cioè vuole vivere alcuni giorni di oceano indiano lontano da mete frequentate come Zanzibar o Mafia. Passiamo in rassegna infatti due resort, uno dei quali addirittura con aeroplano parcheggiato di fronte, che si rivelano ben presto al di fuori del nostro budget. L’ultima possibilità è quella giusta. E’ il Kilwa Seaview resort, dotato di alloggi confortevoli e suggestivi, una spettacolare sala da pranzo costruita attorno ad un baobab e soprattutto di un listino prezzi alla nostra portata. Una rampa di scale conduce alla spiagge sottostante. Qui il mare è oceano, nel senso che la sua impetuosità non è frenata dalla barriera corallina. Ma l’acqua è trasparente e la spiaggia è deserta. Ci godiamo quindi qualche ora di relax sulla spiaggia fino al momento del tramonto, colorato e romantico come in poche altre occasioni.
L’indomani puntiamo decisi alla meta principale del nostro viaggio, Kilwa Kisiwani. Kisiwani, in Swahili, significa “nell’isola”, e infatti si tratta di un’isola raggiungibile solamente attraversando uno stretto braccio di mare sui dhow dei pescatori che attendono oziosi su quella che una volta doveva essere una banchina di un porto. Per visitare Kilwa Kisiwani occorre pagare una tassa governativa, e come spesso accade in Tanzania non è per nulla facile ottemperare a questa norma. Attendiamo circa un’ora fuori da un ufficio in prossimità del porto in attesa che qualcuno si decida a venire. La nostra attesa è premiata dall’arrivo di un impiegato o presunto tale, il quale ci fa accomodare e ci permette di pagare quanto dovuto. Se si vuole promuovere il turismo, facilitare queste procedure dovrebbe essere il primo passo, ma pensandolo commettiamo il solito errore di chi interpreta l’Africa con la mente di un europeo.
Per quanto lunga è stata l’attesa per l’attivazione del canale ufficiale, per quanto breve è stata la ricerca di un pescatore che ci desse un passaggio fino all’isola. In Africa il rispetto della legge e della burocrazia è sempre più indaginoso dell’incontro della domanda con l’offerta. Saliamo sull’imbarcazione dalla caratteristica vela triangolare e dirigiamo la prua verso Kilwa Kisiwani. Ad attenderci, dove il pescatore attracca il dhow, c’è l’edificio più suggestivo e meglio conservato dell’isola. Si tratta del forte portoghese che veniva usato come prigione nel XVI secolo, che si staglia ancora oggi a controllo dell’approdo più agevole dell’isola.
Dall’XI al al XV secolo, sotto il controllo della dinastia Shirazi di provenienza persiana, Kilwa Kisiwani assurse al ruolo di città più importante dell’Africa orientale e dell’oceano indiano. Essa infatti divenne il fulcro dei traffici commerciali recanti oro e ferro da Gran Zimbabwe, schiavi e avorio dall’Africa continentale, porcellane e spezie dall’Asia.
Di questo periodo sono gli imponenti edifici di Husuni Kubwa, dall’altra parte dell’isola rispetto alla fortezza-prigione, e la Grande Moschea di Kilwa, all’epoca la più grande dell’Africa orientale.
Nel XVI secolo i Shirazi vengono scalzati nel dominio sulle rotte mercantili dell’oceano indiano dai portoghesi di Vasco Da Gama, che però occupano l’isola per nemmeno un decennio, venendo scalzati dalla dominazione araba prima e omanita poi. Il periodo omanita, che coincide con l’ascesa di Zanzibar, sancisce l’inizio del declino di Kilwa che a metà del 1800 viene praticamente abbandonata. Nel 1981 viene dichiarata patrimonio UNESCO al fine di tutelare le sue rovine dall’incuria e dalle intemperie, intento che a giudicare lo stato di conservazione dei vari edifici non sembra del tutto riuscito.
Appena scesi dall’imbarcazione ci dirigiamo a visitare il forte. Veniamo subito agganciati dal piccolo Hassan, un bambino che a prezzo di pochi scellini si offre di farci da guida per raggiungere i vari siti dell’isola. Accettiamo di buon grado, senza paura di incoraggiare il lavoro minorile e l’abbandono scolastico: è domenica, le scuole sono chiuse e nessuno potrebbe vivere con il lavoro di guida turistica su un’isola dimenticata dal turismo.
La scelta di Hassan si è rivelata estremamente azzeccata: è un caldo soffocante è girare senza un guida sarebbe stata garanzia di perderci e di rimediare un’insolazione. Hassan ci guida tra le rovine delle moschee, il palazzo del sultano e di Mkutini. Tutti questi edifici si trovano vicini alla fortezza, per cui è facile raggiungerli. La guida è invece essenziale per raggiungere l’antico palazzo di Husuni Kubwa, dall’altra parte dell’isola. Queste rovine, si dice, rappresentano la più importante testimonianza storica dell’Africa equatoriale di epoca pre-coloniale.
Attraversando l’isola per raggiungere il Husuni Kubwa, si incontrano diversi villaggi. La vita sull’isola deve essere molto dura. Pochissima acqua, terra arida e sabbiosa, clima proibitivo. Chiediamo ad Hassan come fa per la scuola, e lui dice che bisogna attraversare il mare e andare a Kilwa Masoko. Di lavoro sull’isola ovviamente non se ne parla; anche l’agricoltura, il naturale sbocco lavorativo per i tanzaniani che non vivono in città, qui è ridotta ai minimi termini.
E’ molto triste. Le premesse per lo sfruttamento turistico ci sarebbero tutte: mare meraviglioso, natura incontaminata, siti archeologici unici. Un’altra occasione mancata per questo angolo di Africa.
Kilwa 1572
M.L.

lunedì 26 settembre 2011

Wajir 1970

I ragazzi con l’eschimo ed i libri in braccio, tenuti a malapena da un elastico, si incamminano verso scuola ed un’interminabile fila di biciclette accompagna  chi si reca al lavoro.
Ci sono ancora le sirene nelle fabbriche che gridano l’inizio e la fine del lavoro, ma si respira aria di cambiamento.
Ragazzi con i capelli lunghi, l’aria sognante di chi immagina un futuro senza guerre e senza competizione e quelli impegnati che credono nella giustizia sociale, nella rivoluzione culturale, da attuare ora e subito, costi quel che costi.
Ma il mattino è giovane e mentre ritorno a casa incontro Renè bella, giovane, longilinea con lo sguardo in un futuro che stenta a venire, che mi racconta di un posto lontano, in Africa,  dove si soffre la fame ed i bambini muoiono, dove c’è guerra e dove la gente ha bisogno di pane ed acqua.
Mani tese sta organizzando un campo di lavoro, una cinquantina di giovani, provenienti da tutto il mondo, mettono a disposizione il loro tempo e la loro esperienza per realizzare un progetto: un villaggio in cui i giovani che riescano a sopravvivere, possano studiare e mantenersi grazie alla coltivazione di un grande orto.
Bisogna costruire dormitori, portare l’acqua da lontano, fare la scuola, le recinzioni e chissà cosa ancora, ma  forse la strada giusta è quella di aiutare chi ti chiede aiuto, porti solo le domande a cui riesci a rispondere con le tue azioni, solo annegando le mani nella farina e facendo fatica ad impastarla riesci a fare il pane.
Ed il pane che cuoci ha finalmente la fragranza di una vita migliore.
Ci prepariamo, ci conosciamo, siamo pronti al grande viaggio.
Ci troviamo tutti a Roma, destinazione Nairobi.
Clima euforico di chi inizia un’avventura che ti segnerà per sempre
Visita alla Consolata a Nairobi e preparazione della spedizione a Wajir. Domani si parte.
La spedizione è composta da tre jeep della Toyota grandi abbastanza da contenere i materiali e tutti noi.
Ci aspettano al campo gli altri ragazzi che sono già sul posto da alcuni giorni.
Siamo seduti in terra, no ci sono sedili sulle auto e la strada è in terra battuta con grandi buche che ci fanno sobbalzare continuamente.
Ci aspettano tre giorni di cammino.
Si fa una sosta in una trattoria sulla strada…  Ovvero una stanza scavata nella terra dove servono pezzi di carne maleodorante su un tavolo di legno. Niente piatti, niente posate, niente tovaglie, si mangia con le mani.
Il risultato è che appena saliti in macchina, dopo pochi chilometri, tutti vomitano anche l’anima.
Guadiamo un fiume senza ponti e passiamo la notte in una missione.
La sera ci fermiamo a guardare la luna e le stelle. Pare di essere in un altro pianeta. Una luna enorme che illumina a giorno il bush, un cielo che ti rapisce e ti insegna a volare. Animali che ti sussurrano cosa vuol dire essere liberi. Sensazioni nuove che ti inebriano, ti sembra di cominciare solo ora a comprendere il senso della vita. Ci voleva l’Africa per capire che l’uomo non domina la natura ma che la sua vita non ha alcun senso al di fuori di essa.
Si riparte su questo sentiero che non finisce mai con gli animali che corrono a fianco della carovana. Il paesaggio sempre uguale.
Si incontrano sporadici gruppi di indigeni che portano a pascolare le bestie. Chiedono acqua come un mendicante chiede l’elemosina.
Gliene diamo quanto più possiamo.
Ci accampiamo con le tende, ceniamo con i cibi in scatola che ci sembrano leccornie e quando il sole spunta prepotente all’orizzonte, ripartiamo.
Stremati dal viaggio finalmente arriviamo a Wajir
Qualche edificio in muratura, qualche tenda ed il bush che si stende all’infinito.
Pochi indigeni e tanti ragazzi bianchi che popolano questo lembo di terra disperso nell’immensità. Accoglienza festosa, ci assegnano i posti dove dormire e si fa il primo briefing.
Progetto ambizioso: Costruire un villaggio per i ragazzi sopravvissuti, portare l’acqua e irrigare alcuni campi in modo che i ragazzi possano studiare e mantenersi coltivandoli.
Nel raggio di 1000 Km non esiste nessuno dedito all’agricoltura ma sono solo piccole tribù che praticano la pastorizia.
Come fantasmi venuti dal nulla, arrivano da tutte le direzioni, al tramonto, quando il sole diventa rosso e la terra si prepara a riposare nell’oscurità della notte.
Magri, macilenti, non si sa da dove e dove passano il resto della giornata, arrivano e basta.
Si mettono in cerchio intorno al grande albero che troneggia al centro del villaggio, unico essere vivente che sprezzante delle difficoltà umane, ricorda a tutti l’immanenza della vita.
Occhi grandi, mani vuote, non chiedono, ma protestano il diritto alla vita solo con la loro silenziosa presenza.
Donne sole che portano con se piccoli uomini aggrappati alle loro povere vesti.
Anche loro non chiedono, hanno invece qualcosa da vendere: la loro dignità. Anche se allo stremo delle forze, proteggono la giovane vita a loro affidata, prima che la loro stessa vita.
Spesso i bimbi muoiono, ma non ci sono lacrime o disperazione, la morte fa parte della vita, ci viene data e ci viene tolta indipendentemente dalla nostra volontà.
Un fatalismo non cinico ma legato all’eterno ciclo della natura.
Solo così si comprende che la morte non è l’inizio di un’altra vita né la negazione della vita stessa, ma fa parte di un disegno naturale, di un ciclo a cui siamo chiamati ad assoggettarci, con lo spirito di chi si affida a quel mistero che tutto comanda.
Alla fine dominare la natura è una mera illusione dei popoli che si ritengono evoluti. E’ lei la nostra madre, senza di essa si perde il senso e l’essenza della vita stessa.
Le ragazze preparano un pastone in un’enorme pentola poggiata su pietre.
Sotto, il fuoco rosso come il sole, scalda il povero pasto che spesso non riuscirà a saziare.
Aspettano con infinita pazienza che venga distribuito, si presentano con ciotole di latta o barattoli raccattati chissà dove e si ritirano quasi nascondendosi a consumare quel pasto che è per loro speranza di vita.
Poi spariscono così come sono comparsi, nel nulla.
I bambini non si possono toccare, non si può dare loro il benché minimo segno di affetto pena il trovarli il giorno dopo pieni di lividi o addirittura morti. Gli altri bambini li aggrediscono perché non capiscono perché a quello si da affetto ed a loro no. Fa parte della natura umana il senso di giustizia, e non potendo dare a tutti lo stesso affetto, ci si deve rassegnare a non darlo a nessuno.
Si lavora alacremente, per quello che le forze ti consentono, ad una temperatura che nelle ore di punta sfiora i 50 gradi all’ombra
Arrivano spesso i soldati ed ispezionano il campo, vogliono essere sicuri che non ci siano armi e ci trattano male ed a volte ci minacciano. Non capiscono cosa ci facciamo sul loro territorio.
Con un piccolo aereo sgangherato che non vuole mettersi in moto, partiamo alla volta di Nairobi, qualche giorno per i souvenir e poi l’aereo che parte per riportarci a casa.
Stanchi, provati, ma ho avuto molto più di ciò che ho dato, insegnamenti che mi hanno accompagnato per il resto della mia vita.
Ho compreso poche cose:
cos’è la dignità
Il senso del tempo, entità effimera
La morte come valore di vita
la centralità della natura
voler dare vuol dire poter ricevere

Testimonianza scritta da Leandro Calvino, volontario a Wajir nel 1970.

giovedì 15 settembre 2011

Less is More


Il CEFA sta implementando a Dar es Salaam un progetto di riabilitazione su base comunitaria, formazione, integrazione sociale e inserimento lavorativo di persone appartenenti a categorie vulnerabili (diversamente abili, malati di HIV, orfani, ecc.). Il progetto è chiamato "Less is More" (Labour, Empowerment and Social Services for vulnerable people). Partner del progetto sono l'ONG CCBRT, la più importante organizzazione in Tanzania in materia di erogazione di servizi riabilitativi per diversamente abili, e RADAR Development, la principale agenzia di collocamento tanzaniana.
Il Progetto sta riscuotendo un notevole successo e numerose sono le persone che hanno trovato un buon impiego grazie a questa iniziativa.
Il video che segue viene trasmesso da televisioni, radio e schermi stradali per sensibilizzare i datori di lavoro sul tema dell'impiego di persone diversamente abili.
Sotto al video riporto la traduzione del testo.


Prima di arrivare nella vostra azienda abbiamo già avuto modo di dimostrare il nostro valore sforzandoci di superare gli ostacoli, passo dopo passo affermandoci come individui, affinando i nostri talenti.
Tutto quello che chiediamo è di fare quello che già abbiamo fatto tutti i giorni della nostra vita.
Abbiamo le capacità e le stiamo mettendo a disposizione di alcune delle migliori aziende della Tanzania.
Quali qualità cerchi in un impiegato?
Determinazione, coraggio, impegno, lealtà?
Una disabilità è solo una delle tante sfide che abbiamo imparato a superare.

sabato 10 settembre 2011

Siccità

Ahmed dice che la loro poesia narra spesso il dramma e la distruzione di clan che, attraversando un deserto, non sono riusciti a raggiungere un pozzo. Queste tragiche spedizioni durano giorni e perfino intere settimane. Per prime muoiono le capre e le pecore: senz’acqua non resistono più di quattro o i giorni. Poi viene il turno dei bambini. “Poi i bambini” dice Ahmed, senza aggiungere altro: né come reagiscano madri e padri, né come si svolgano i funerali. “Poi i bambini” ripete, e tace di nuovo. Fa così caldo che anche parlare è uno sforzo. E’ appena passato mezzogiorno, non si respira. “Poi muoiono le donne” riprende dopo una pausa. “I sopravvissuti non possono fermarsi; se si fermassero per ogni morto non arriverebbero mai al pozzo. Una sola morte se ne porterebbe dietro tutta una serie. Il clan in cammino sparirebbe durante il viaggio e nessuno riuscirebbe più a stabilire dov’è finito.”
[…] “Gli uomini e i cammelli resistono un po’ più a lungo. Un cammello può stare anche tre settimane senza bere, pur continuando a camminare per più di cinquecento chilometri. Per tutto questo tempo le cammelle conserveranno qualche goccia di latte. Queste tre settimane sono l’estremo limite di vita di uomini e cammelli qualora restassero soli al mondo.” “Soli al mondo!” esclamò Ahmed e nella sua voce risuonò lo spavento, poiché l’essere soli al mondo è esattamente quello che  un somalo non riesce ad immaginare. Uomini e cammelli avanzano alla ricerca di un pozzo con l’acqua. Camminano sempre più piano, sempre più a fatica, dato che il terreno che percorrono è costantemente esposto al sole. All’intorno tutto avvampa, brucia, ribolle: pietre, sabbia, aria. “Uomini e cammelli muoiono insieme” disse Ahmed. “Succede quando le mammelle delle cammelle diventano vuote e screpolate e l’uomo non trova più latte. Di solito uomini e animali hanno ancora la forza di trascinarsi fino all’ombra. E così infatti vengono ritrovati dopo morti: all’ombra o dove gli era parso che ce ne fosse”.
[…] “Siamo fatti così” dice: non con rassegnazione, ma con una sfumatura di orgoglio. La natura è qualcosa che è inutile contrastare o tentare di correggere e di cui non ci si libera. La natura è data da Dio, quindi è perfetta, come pure sono perfetti la siccità, le calura, i pozzi prosciugati e la morte durante il cammino. Se non ci fossero non conosceremmo la voluttà della pioggia, il sapore divino dell’acqua e la dolcezza vivificante del latte. Le bestie non godrebbero l’erba succosa, il profumo inebriante dei prati. L’uomo non saprebbe che cosa significhi bagnarsi in un ruscello di acqua e fresca e cristallina. Non si renderebbe conto di che paradiso siano queste cose.

Testo tratto da “Ebano” di Ryszard Kapusckinski. Le fotografie sono state scattate dai ragazzi del Day Care Centre for Grannies di Wajir, e documentano la terribile siccità che sta colpendo il corno d'Africa.

sabato 20 agosto 2011

Dadaab Refugee Camp

La cittadina di Dadaab è situata nel distretto di Garissa nella provincia nord-orientale del Kenya, a circa cinquecento chilometri da Wajir e un’ottantina di chilometri dal confine somalo. Questa zona è caratterizzata da un ambiente semi-desertico con una rada vegetazione composta da acacie spinose e bassi arbusti e contraddistinto da temperature elevatissime (fino a cinquanta gradi) e scarse precipitazioni. Nel 1991, l’esplosione del conflitto interclanico in Somalia che ha dato il via ad una guerra civile che prosegue tutt’oggi ha provocato un eccezionale flusso di profughi verso il Kenya e verso l’Etiopia. A partire da quell’anno, per accogliere ed in qualche modo contenere l’enorme numero di esuli in fuga, il governo keniano e la comunità internazionale hanno provveduto alla realizzazione di tre campi profughi intorno alla cittadina di Dadaab: Ifo, Dagahaley e Hagadera. In totale questi campi coprono una superficie di circa cinquanta chilometri quadrati e si trovano entro un raggio di diciotto chilometri da Dadaab. I campi sono stati costruiti per accogliere circa novantamila rifugiati.



Il programma dell’UNCHR (alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), l’organizzazione preposta alla gestione dei campi, è sempre stato quello di procedere ad un progressivo rimpatrio dei profughi fino alla chiusura dei campi. Purtroppo la guerra somala ha subito una continua recrudescenza e ha visto l’ingresso in campo di nuovi attori (le corti islamiche Al-Shabaab e l’esercito dell’unione africana), per cui l’arrivo di cittadini somali ai campi keniani è proseguito nel corso degli anni ad un ritmo costante. Alla fine del 2010, i campi di Dadaab erano arrivati ad ospitare trecentomila rifugiati. I campi si sono allargati a dismisura, e le organizzazioni coinvolte hanno dovuto adeguare i campi, inseguendo una continua emergenza, alle esigenze di una popolazione residente in travolgente aumento. 43.000 latrine, 16 pozzi, 3 ospedali e 15 ambulatori, 19 scuole primarie e 3 scuole secondarie … sono solo alcune delle strutture realizzate per fornire i servizi primari ai profughi. Per gestire questa immensa crisi umanitaria sono attualmente mobilitate 4 agenzie delle nazioni unite, 4 agenzie governative, 25 ONG, più altre organizzazioni presenti a vario titolo. Nonostante l’imponente dispiegamento di forze umanitarie la condizione dei profughi rimane critica. Soltanto il 50% dei bambini riesce ad accedere all’istruzione primaria e meno del 30% a quella secondaria. Il tasso di disoccupazione è del 98%. Le strutture sanitarie stentano a far fronte alle richieste di assistenza. Le razioni alimentari distribuite due volte al mese e fissate secondo gli standard minimi di 2100 calorie al giorno, a causa del numero di profughi si sono progressivamente ridotte e nel 2010 sono state quasi dimezzate. Malgrado i 220 agenti di polizia la sicurezza è un problema grave. Le donne alla ricerca di legna da ardere sono costrette ad allontanarsi sempre di più dalle loro case e sono esposte a rapimenti e stupri, eventi che si verificano con preoccupante frequenza. Ai profughi non è permesso allontanarsi dai confini dei campi, delimitati da reti e filo spinato. Al massimo possono spostarsi da un campo all’altro esibendo un pass identificativo e avvalendosi degli autobus che svolgono un servizio di trasporto. Il risultato è che molti somali sono all’interno dei campi da vent’anni, senza lavoro né altre occupazioni, sopravvivendo solo grazie agli aiuti distribuiti dalle varie organizzazioni umanitarie. E quel che è peggio, ci sono migliaia di bambini nati nei campi che non conoscono altra realtà che quella di profugo.




I primi arrivati nei campi sono stati alloggiati in baracche di legno e lamiera, ma da molti anni ormai i profughi per avere un alloggio sono costretti a costruirsi i propri “aqal” (tradizionali capanne nomadi a forma di cupola) con i materiali che riescono a procurarsi nei campi, soprattutto stracci, i sacchi vuoti degli aiuti e pezzi di teloni plastici. A peggiorare la situazione nel 2011 si è verificata in tutto il corno d’Africa la peggiore siccità degli ultimi sessant’anni. I somali in fuga dalla guerra e dalla carestia arrivano a gruppi di mille al giorno. Ad oggi i campi sono arrivati ad ospitare quattrocentomila persone, ed entro la fine dell’anno supereranno le quattrocentocinquantamila presenze. Dadaab è diventato il campo profughi più grande del mondo. E’ pronto ormai da mesi il quarto campo di Dadaab, IFO II, ma alcune resistenze del governo keniano ne ritardano l’apertura. Il governo keniano è contrario a migliorare il livello dell’assistenza, perché i profughi possono essere incentivati a stabilirsi nei campi. La realtà dei fatti è che fino a che il conflitto somalo proseguirà, i profughi non potranno tornare in patria e dopo vent’anni si sono già stabiliti a vivere a Dadaab con le loro famiglie. Il grande interrogativo che le organizzazioni coinvolte si pongono è quando finisce lo stato di emergenza e deve iniziare l’aiuto allo sviluppo di una comunità? Questo non è però il solo quesito. Durante la siccità e la carestia, e quella del 2011 non è stata l’unica dal 1991, fuori dai campi ci sono centinaia di migliaia di somali keniani che vivono infinitamente peggio dei somali rifugiati, ai quali è garantita una seppur misera sopravvivenza. Per chi muore di fame ma non può beneficiare dello status di rifugiato non vale l’emergenza umanitaria? Non è difficile immaginare che tra i rifugiati che giungono a chiedere asilo nei campi ci siano molti somali del Kenya, in cerca di acqua e cibo per se e per le loro famiglie. La carestia, che in tre mesi si stima abbia ucciso quasi trentamila bambini, ha concentrato l’attenzione del mondo su questo angolo d’Africa. Tra poco essa non sarà più una notizia e calerà nuovamente l’oblio mediatico su Dadaab e sulla tragedia dei somali.

sabato 6 agosto 2011

La suggestione mistica della montagna


Dopo una corsa senza ostacoli di mille e duecento chilometri, dalle rive del fiume Mississippi verso il Pacifico, la Grande Prateria settentrionale del continente americano si infrange contro una barriera di rocce che precedono le Montagne Rocciose e sembrano far loro la guardia. Gli americani hanno battezzato queste rocce “The Black Hills”, traducendo letteralmente il vecchio nome che avevano dato loro i Lakota Sioux: Paha Sapa, appunto le Colline Nere.[…]
Al mattino presto, quando il sole che sorge illumina la loro faccia rivolta a est, e al tramonto, quando il loro profilo dolomitico si staglia contro il cielo immenso del West alle loro spalle, da quei monti coperti di conifere e alti duemila metri si spigiona un richiamo profondo e inspiegabile. […]
[…] molto prima che gli scultori di monumenti e i produttori di Hollywood sentissero il richiamo delle Colline Nere, i Lakota Sioux avevano già stabilito che le Paha Sapa erano un luogo sacro, la casa di Uakan Tanka, il Grande Padre Mistero, il Grande Spirito, il Grande Creatore. La casa di Dio.
Sarebbe facile, naturalmente, concludere che quegli uomini ingenui e primitivi si sono lasciati incantare dall’incomprensibile bellezza di una catena di monti scuri che sboccia nel mezzo di una pianura arida, come un miraggio o un presagio delle grandi Rocciose. Ma chi ha visto le colline della Palestina, le alture nude, color ossa e sangue sulle quali sorge Gerusalemme, la città sacra di ben tre grandi religioni, il Cristianesimo, l’Islamismo e l’Ebraismo, sa che tutti gli uomini, e non solo i Sioux, associano istintivamente le suggestioni naturali con il richiamo del soprannaturale. Un’etologa americana, Jane Goodall, che da quarant’anni studia il comportamento dei nostri cugini, gli scimpanzé africani, sostiene, dopo aver visto le scimmie ammutolire estatiche davanti a catene montane e cascate alpine, che la prima idea di Dio dovette nascere negli uomini alla vista di un monte.
Brano tratto dal libro “Gli Spiriti non dimenticano”, di Vittorio Zucconi.