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domenica 11 agosto 2019

Il dottore degli sbarchi

“Libertà non è avere la possibilità di esprimere un concetto, ma essere messi nelle condizioni di costruire il proprio pensiero, senza doverlo prendere in prestito da qualcuno”.
Questo è esattamente ciò che è successo nella settimana trascorsa a Reggio Calabria. Abbiamo incontrato volontari impegnati nell’accoglienza, mediatori culturali, senzatetto, il medico degli sbarchi
La verità non si trova sui giornali, sui social o alla televisione. La verità è quella che siamo andati a cercare percorrendo 1.000 km in treno, che abbiamo visto con i nostri occhi e ascoltato con le nostre orecchie.
Abbiamo capito che sul fenomeno migratorio speculano e guadagnano i trafficanti di essere umani, gli schiavisti, i mercanti di organi, le polizie di frontiera, la guardia costiera libica e gli scafisti.
Abbiamo inteso che a questa rete criminale non interessa minimamente se i porti sono chiusi o aperti, perché il loro compito si conclude a 12 miglia nautiche dalle coste libiche, in acque internazionali. A loro interessa solo che i soldi dei migranti continuino a fluire nelle loro tasche.
Cosa accade oggi in quella zona di mare maledetta, nessuno lo sa.
Abbiamo osservato con i nostri occhi mutilazioni e ferite raccapriccianti e irriferibili, segni di torture subite nei paesi di origine, lungo il tragitto, nei campi di concentramento libici.
Abbiamo scoperto che nel 2019 a Sabrata, in Libia, esiste un mercato degli schiavi.
Abbiamo seguito un cammino lungo 4.000 km attraverso il Sahara disseminato di cadaveri e fosse comuni.
Abbiamo imparato che anni fa i migranti arrivavano su grandi barconi, mentre oggi arrivano sulle nostre spiagge su piccoli battelli. “Sbarchi anomali” li chiamano. Sono i più pericolosi. Oggi si muore annegati a 50 metri dalla spiaggia.
Abbiamo compreso che la povertà di queste persone e quella degli italiani non possono essere messe sullo stesso piano. In Italia nessuno viene evirato perché sorpreso a baciare in pubblico la propria fidanzata, nessun genitore deve decidere a quali figli dare da mangiare, nessun adolescente viene indotto ad attraversare il deserto e il mare per cercare le risorse che gli permettano di mantenere la propria famiglia.
Ci è stato riferito che gli eritrei li riconosci subito all’arrivo: sono quelli che pesano 35 kg. Parlano il tigrino, una lingua che nessun altro conosce, e ciò li emargina dagli altri migranti. Sono i più poveri e quindi quelli che possono pagare meno. Per questo vengono stipati nelle stive delle navi. Sono i primi ad annegare quando l’imbarcazione si capovolge e quelli che arrivano sono ustionati in tutto il corpo dagli schizzi dei motori e dalla miscela di acqua salata e gasolio.
Abbiamo capito perché ai migranti, prima di salire sulle barche, vengono tolte le scarpe. In questo modo si risparmia peso, si possono imbarcare più persone e guadagnare più soldi.
Abbiamo capito che i corridoi umanitari sono uno strumento importante che andrebbe potenziato perchè numericamente rappresentano
una goccia nell’oceano del bisogno di chi fugge dalla violenza e dalla fame.
Abbiamo ascoltato con vergogna che anche in Italia c’è chi si approfitta dei migranti per guadagnare ai danni dello stato e dei cittadini italiani.
Abbiamo incontrato persone straordinarie che si prendono cure di tanti italiani poveri e senzatetto, e con la stessa umanità salvano ed accolgono tanti poveri di altri paesi. Queste persone dedicano la loro vita a chi si trova nel bisogno e non guardano al passaporto per prestare la loro opera. Si tratta di gente del sud, che spesso si prodiga nella totale gratuità, incurante dei pregiudizi che il ricco nord trasuda anche nei suoi confronti.
Ora sappiamo che la verità, una volta conquistata, va difesa mettendoci la faccia e scegliendo pubblicamente da che parte stare.
“Una cosa è certa. Questi fatti tra trent’anni finiranno nei libri di storia e i tuoi figli, venendone a conoscenza, ti chiederanno: -Tu c’eri. Che cosa hai fatto?-”.
Abbiamo scoperto che la marina italiana è un corpo militare di cui tutti dovremmo andare fieri per la sua efficienza, professionalità e soprattutto per la sua umanità.
della Calabria, migranti e profughi. Infine abbiamo costruito il nostro pensiero.
(Le frasi virgolettate sono state pronunciate dal dott. Enzo Romeo, uno dei 15 medici italiani autorizzati a condurre le operazioni sanitarie durante le fasi di sbarco. Uno che ha partecipato a 210 sbarchi e visitato, soccorso, curato e parlato con 108.000 profughi e migranti. Un’altra persona della quale noi italiani dovremmo andare fieri).

sabato 20 agosto 2011

Dadaab Refugee Camp

La cittadina di Dadaab è situata nel distretto di Garissa nella provincia nord-orientale del Kenya, a circa cinquecento chilometri da Wajir e un’ottantina di chilometri dal confine somalo. Questa zona è caratterizzata da un ambiente semi-desertico con una rada vegetazione composta da acacie spinose e bassi arbusti e contraddistinto da temperature elevatissime (fino a cinquanta gradi) e scarse precipitazioni. Nel 1991, l’esplosione del conflitto interclanico in Somalia che ha dato il via ad una guerra civile che prosegue tutt’oggi ha provocato un eccezionale flusso di profughi verso il Kenya e verso l’Etiopia. A partire da quell’anno, per accogliere ed in qualche modo contenere l’enorme numero di esuli in fuga, il governo keniano e la comunità internazionale hanno provveduto alla realizzazione di tre campi profughi intorno alla cittadina di Dadaab: Ifo, Dagahaley e Hagadera. In totale questi campi coprono una superficie di circa cinquanta chilometri quadrati e si trovano entro un raggio di diciotto chilometri da Dadaab. I campi sono stati costruiti per accogliere circa novantamila rifugiati.



Il programma dell’UNCHR (alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), l’organizzazione preposta alla gestione dei campi, è sempre stato quello di procedere ad un progressivo rimpatrio dei profughi fino alla chiusura dei campi. Purtroppo la guerra somala ha subito una continua recrudescenza e ha visto l’ingresso in campo di nuovi attori (le corti islamiche Al-Shabaab e l’esercito dell’unione africana), per cui l’arrivo di cittadini somali ai campi keniani è proseguito nel corso degli anni ad un ritmo costante. Alla fine del 2010, i campi di Dadaab erano arrivati ad ospitare trecentomila rifugiati. I campi si sono allargati a dismisura, e le organizzazioni coinvolte hanno dovuto adeguare i campi, inseguendo una continua emergenza, alle esigenze di una popolazione residente in travolgente aumento. 43.000 latrine, 16 pozzi, 3 ospedali e 15 ambulatori, 19 scuole primarie e 3 scuole secondarie … sono solo alcune delle strutture realizzate per fornire i servizi primari ai profughi. Per gestire questa immensa crisi umanitaria sono attualmente mobilitate 4 agenzie delle nazioni unite, 4 agenzie governative, 25 ONG, più altre organizzazioni presenti a vario titolo. Nonostante l’imponente dispiegamento di forze umanitarie la condizione dei profughi rimane critica. Soltanto il 50% dei bambini riesce ad accedere all’istruzione primaria e meno del 30% a quella secondaria. Il tasso di disoccupazione è del 98%. Le strutture sanitarie stentano a far fronte alle richieste di assistenza. Le razioni alimentari distribuite due volte al mese e fissate secondo gli standard minimi di 2100 calorie al giorno, a causa del numero di profughi si sono progressivamente ridotte e nel 2010 sono state quasi dimezzate. Malgrado i 220 agenti di polizia la sicurezza è un problema grave. Le donne alla ricerca di legna da ardere sono costrette ad allontanarsi sempre di più dalle loro case e sono esposte a rapimenti e stupri, eventi che si verificano con preoccupante frequenza. Ai profughi non è permesso allontanarsi dai confini dei campi, delimitati da reti e filo spinato. Al massimo possono spostarsi da un campo all’altro esibendo un pass identificativo e avvalendosi degli autobus che svolgono un servizio di trasporto. Il risultato è che molti somali sono all’interno dei campi da vent’anni, senza lavoro né altre occupazioni, sopravvivendo solo grazie agli aiuti distribuiti dalle varie organizzazioni umanitarie. E quel che è peggio, ci sono migliaia di bambini nati nei campi che non conoscono altra realtà che quella di profugo.




I primi arrivati nei campi sono stati alloggiati in baracche di legno e lamiera, ma da molti anni ormai i profughi per avere un alloggio sono costretti a costruirsi i propri “aqal” (tradizionali capanne nomadi a forma di cupola) con i materiali che riescono a procurarsi nei campi, soprattutto stracci, i sacchi vuoti degli aiuti e pezzi di teloni plastici. A peggiorare la situazione nel 2011 si è verificata in tutto il corno d’Africa la peggiore siccità degli ultimi sessant’anni. I somali in fuga dalla guerra e dalla carestia arrivano a gruppi di mille al giorno. Ad oggi i campi sono arrivati ad ospitare quattrocentomila persone, ed entro la fine dell’anno supereranno le quattrocentocinquantamila presenze. Dadaab è diventato il campo profughi più grande del mondo. E’ pronto ormai da mesi il quarto campo di Dadaab, IFO II, ma alcune resistenze del governo keniano ne ritardano l’apertura. Il governo keniano è contrario a migliorare il livello dell’assistenza, perché i profughi possono essere incentivati a stabilirsi nei campi. La realtà dei fatti è che fino a che il conflitto somalo proseguirà, i profughi non potranno tornare in patria e dopo vent’anni si sono già stabiliti a vivere a Dadaab con le loro famiglie. Il grande interrogativo che le organizzazioni coinvolte si pongono è quando finisce lo stato di emergenza e deve iniziare l’aiuto allo sviluppo di una comunità? Questo non è però il solo quesito. Durante la siccità e la carestia, e quella del 2011 non è stata l’unica dal 1991, fuori dai campi ci sono centinaia di migliaia di somali keniani che vivono infinitamente peggio dei somali rifugiati, ai quali è garantita una seppur misera sopravvivenza. Per chi muore di fame ma non può beneficiare dello status di rifugiato non vale l’emergenza umanitaria? Non è difficile immaginare che tra i rifugiati che giungono a chiedere asilo nei campi ci siano molti somali del Kenya, in cerca di acqua e cibo per se e per le loro famiglie. La carestia, che in tre mesi si stima abbia ucciso quasi trentamila bambini, ha concentrato l’attenzione del mondo su questo angolo d’Africa. Tra poco essa non sarà più una notizia e calerà nuovamente l’oblio mediatico su Dadaab e sulla tragedia dei somali.