lunedì 1 dicembre 2008

Nomi Bislacchi

Lavorando in un progetto che prevede di confrontarsi con gruppi numerosi di persone (contadini, utenti del servizio acqua ed elettricità, studenti, ecc.), spesso capitano per le mani liste molto nutrite di nomi. Dopo  anni di Tanzania posso affermare con cognizione di causa che in molti casi i tanzaniani hanno nomi decisamente bislacchi.

Ci sono innanzitutto quelli appartenenti alla categoria dei "Nomi derivanti da parole qualunque", ovvero parole sentite in qualche luogo e affibbiate al povero bambino perché avevano un suono che piaceva ai genitori:

Benzina
Burito
Dombosco
Epson
Gatto
Happy
Spelato
Tibia
Excavatore

C'è poi la mia categoria preferita, ovvero quella dei "Nomi con significati assurdi", i cui possessori sono destinati ad una vita di umiliazioni:

Matatizo ("Problemi")
Majembe ("Zappe")
Nafika ("Arrivo")
Oneni ("Guardate")
Saidia ("Aiuto")
Sijampata ("Non l'ho trovato")
Sijui ("Non so")
Sinakitu ("Non ho niente")
Sinawazo ("Non ho pensiero")
Tumwimbie ("Preghiamolo")
Zabibu ("Uva")

Ci sono infine i "Nomi Impronunciabili" (o almeno impronunciabili da noi stranieri):

Alatwinusa
Ang'emelye
Atusunguche
Atwanuche
Kibwetele
Klispaxava
Mwagamasindo
Mwakinyengere
Ng'ombwise
Nyongelise
Tulahigwa
Yehoyada


M.L.

sabato 11 ottobre 2008

Storia di Ireneo

Ireneo Kahise nacque a Masisiwe, un piccolissimo villaggio sui monti della Tanzania meridionale. Dopo le scuole primarie, a tredici anni, iniziò a lavorare nei campi e a quattordici anni era già indipendente, vivendo in una capanna propria e provvedendo autonomamente ai propri bisogni. Fin da bambino dimostrò sempre un forte senso religioso, e questa propensione lo portò, all'età di diciotto anni, ad iscriversi alla scuola per catechisti di Makalala. La scuola di catechisti di Makalala è una scuola triennale a tempo pieno, in cui gli studenti vengono istruiti alla vita cristiana di preghiera ed all'insegnamento della religione.
Al termine degli studi si trasferì a Lupilo, che si trova vicino al suo villaggio natale. Qui divenne subito il catechista del villaggio ed un vero e proprio punto di riferimento per tutta la comunità. Dopo quattro anni di attività come catechista, Ireneo mise incinta Josepha, la figlia di Mgudule.
Mgudule era un mercante e la persona più ricca del villaggio di Lupilo, tanto che possedeva persino un'auto. Mgudule era un ottimo affarista, pagava sempre i suoi debiti (qualità rara da queste parti), ed in virtù di questo beneficiava di tanti prestiti che sapeva mettere a frutto. Mgudule aveva quattro mogli e ventisette figli; era una persona molto legata alla religione tradizionale della sua tribù, basata sul culto degli spiriti e sulla stregoneria. Nei confronti dei suoi figli era stato un padre molto rigido e avaro, e non aveva concesso loro nulla della propria ricchezza. Per questo i suoi figli lo derubarono diverse volte, e tre di loro finirono in prigione dopo essere stati denunciati dal loro stesso padre. Gli altri figli lo avevano abbandonato, ad eccezione di Josepha, la sua prediletta.
Josepha era l'unica della sua famiglia che gli era sempre rimasta vicina, e per ricompensarla della sua fedeltà Mgudule le concesse di iscriversi alla scuola secondaria.


Al termine del terzo anno di studio, come già anticipato, Josepha rimase incinta di Ireneo. Questo avvenimento causò l'allontanamento di Josepha dalla scuola (ciò è previsto dalla legge tanzaniana) e la sospensione di Ireneo dall'attività di catechista.
Dopo la nascita del bambino, Josepha e Ireneo si sposarono, ed Ireneo potè tornare alla sua occupazione precedente.
Purtroppo il bambino, dopo un mese di vita, morì.
Secondo la religione tradizionale, la morte non avviene mai per cause naturali ma è sempre il risultato di vendette, invidie o maledizioni che cadono sulla famiglia. Secondo questa credenza tutta la vita è regolata da un sistema rigido di precetti, tabù e punizioni. Qualsiasi disobbedienza viene pagata con minacce di morte e di malattia. E' una religione basata sulla paura; non prevede il perdono, tutto ciò che accade deve essere addebitato a qualcuno che dovrà pagare per aver provocato la disgrazia.
Ireneo era un cristiano molto credente, un fermo oppositore delle pratiche religiose tradizionali, e nonostante le pressioni del suocero, Ireneo si rifiutò di consultare lo stregone in merito ai motivi che avrebbero causato la morte del figlio.
Nel frattempo la salute di Josepha iniziò a peggiorare e dovette smettere di aiutare Ireneo nei lavori dei campi e nelle faccende domestiche.
Dopo qualche tempo nacque Josè, il loro secondo figlio. Il suocero, Mgudule, era molto contento perché in quel periodo aveva già perso tre nipoti, e la nascita di Josè veniva interpretata come il segnale che la maledizione che era calata sulla sua famiglia si era esaurita. Il bambino all'inizio stava bene, ma dopo qualche tempo la sua salute iniziò progressivamente a peggiorare, così come quella di Josepha.
All'età di sei mesi Josè, il secondo figlio di Josepha e Ireneo, morì.



Ancora una volta Ireneo si trovò a dover sopportare, oltre al dolore per perdita di un figlio, le pressioni della famiglia e degli amici che lo intimavano di rivolgersi allo stregone, ma lui seppe resistere con coraggio e fermezza.
La morte del secondo figlio fu per la famiglia di Ireneo un colpo durissimo; Josepha tornò a vivere con i propri genitori mentre Ireneo decise di abbandonare la sua vita in quei luoghi per recarsi in città, ad Iringa, a cercare un lavoro che gli permettesse di cambiare aria, perché quella che si respirava a casa sua cominciava ad essere troppo pesante per lui.
Dopo sei mesi Ireneo fece ritorno nel suo villaggio, Lupilo. Il periodo trascorso ad Iringa gli donò nuovo vigore e la sua fede cristiana ne uscì rafforzata. Egli quindi riprese la sua attività di catechista.
Poi, improvvisamente, da un momento all'altro, in un giorno del mese di Giugno, Ireneo rimase cieco. In precedenza non aveva avvertito nessun sintomo particolare che lasciasse presagire ciò che gli sarebbe capitato, se non un po’ di spossatezza; aveva semplicemente cessato di vedere.
Gli abitanti di Lupilo e dei villaggi limitrofi erano tutti della stessa opinione: Ireneo era stato maledetto.


Aiutato dai padri della missione di Ng'ingula, Ireneo si trasferì nuovamente ad Iringa, dove iniziò a sottoporsi ad alcune cure per recuperare la vista.
Dopo tre mesi di cure, Ireneo tornò nel suo villaggio. Aveva recuperato la vista, ma in compenso aveva perso la fede. Ad Iringa era stato avvicinato da membri di una setta pentecostale che lo avevano abbindolato finendo per fargli credere che il recupero della vista era stato un miracolo e che erano state le loro preghiere a guarirlo.
Per tutta la comunità cristiana fu uno shock tremendo. Ireneo, il loro punto di riferimento, colui che aveva dimostrato tanta coerenza nel rigettare la stregoneria, li aveva abbandonati.
Le cose per Ireneo cominciarono, se possibile, a peggiorare ulteriormente. La setta prosciugò Ireneo e la sua famiglia di tutto il denaro, e per pagare gli oboli dovuti vendettero tutti i loro averi ed iniziarono a chiedere l'elemosina.
Josepha, nel frattempo, si aggravò ulteriormente e fu seppellita da Ireneo poco tempo dopo.
L'infermiera del dispensario di Lupilo che aveva in cura Josepha, rivelò ai padri della missione che Josepha era morta di AIDS, malattia contratta ai tempi della scuola secondaria, dove Josepha si prostituiva regolarmente per acquistare olio, sapone e vestiti, dato che l'avaro padre Mgudule non le concedeva neanche un soldo per pagarsi ciò di cui aveva bisogno.
La maledizione che uccise i due figli, la moglie e provocò tutte le disgrazie di Ireneo si chiamava AIDS, ed Ireneo ne era infetto.
Questa interminabile serie di prove a cui fu sottoposto, provocarono una regressione nella salute mentale di Ireneo. Dapprima smise di parlare Kiswahili, la lingua della Tanzania, a favore del Kihehe, il dialetto tribale. Infine uscì completamente di senno, divenendo uno squilibrato.
Oggi Ireneo è conosciuto da tutti come il matto del villaggio di Lupilo.

(Questa storia ci è stata raccontata da Padre Moises Facchini, della missione della Consolata di Ng'ingula)


M.L.

martedì 30 settembre 2008

La Casa con le Ali

Nyumba Ali" è una casa che si trova nella città di Iringa, nel quartiere Wilolesi. Il nome è una combinazione della parola Kiswahili "Nyumba" (casa) e della parola italiana "Ali". E quindi "Casa con le Ali". In realtà il nome ha una storia particolare, in cui il fato travestito da dizionario balordo di Kiswahili ha giocato un ruolo fondamentale. Ma è giusto che questo retroscena rimanga un segreto esclusivo delle persone che abitano Nyumba Ali.


La storia della Casa con le Ali ruota intorno ad una coppia bolognese, Bruna e Lucio. Questi due giovani pensionati hanno deciso di abbandonare la loro vita in Italia per trasferirsi in Tanzania, un paese che già conoscevano ed amavano. Qui, forti dell'appoggio istituzionale della Diocesi di Iringa, hanno aperto una casa famiglia dove accogliere ragazze disabili. Come sempre accade, appena data la disponibilità c'è subito stato chi ha risposto. Prima è arrivata Mage, poi Viky e quindi Ageni. Tutte e tre vengono da storie di povertà ed abbandono, e l'essere state accolte in casa con Bruna e Lucio per loro ha significato rinascere letteralmente a vita nuova.
Le ragazze hanno caratteri e qualità molto diverse fra loro. Mage è quella che risulta subito più accogliente ed affettuosa, Ageni è la più riflessiva ed intelligente, Viky è… irresistibile ed ansiosa di (as) saggiare tutti i nuovi arrivati.
A fianco della Casa con le Ali è stata poi costruita una palestra, allo scopo di accogliere durante il giorno altri ragazzi disabili che così possono eseguire esercizi riabilitativi, consumare un pasto e trascorrere il proprio tempo in compagnia ed allegria.


Per tirare avanti la baracca la coppia si è un po’ divisa i compiti: Lucio tiene metaforicamente (e non solo) in piedi i muri della casa, gestisce tutta la logistica, gli acquisti, le manutenzioni ed i trasporti mentre Bruna è l'organizzatrice e colei che cura le relazioni in Tanzania ed in Italia. Come in tutte le coppie navigate e ben assortite ognuno ha il proprio spazio di intervento, sempre però all'interno di un quadro d'insieme concordato e condiviso.
Ad aiutarli ci sono Mpendwa, che svolge lavori di casa ed aiuta nelle rapporti con i tanzaniani, e Zula, che segue la palestra ed i ragazzi che vanno a fare gli esercizi.
La scelta di Bruna e Lucio è stata sposata da alcuni amici italiani che hanno creato un'associazione per sostenere loro ed i ragazzi ospitati. L'associazione è via via cresciuta ed ora vi aderiscono persone di diversa età ed estrazione sociale. La casa è costantemente visitata da amici e soci, che tornando in Italia offrono il loro contributo per aiutare l'associazione.
La disponibilità e l'accoglienza che immediatamente si respirano nella Casa con le Ali hanno comportato anche un effetto forse imprevisto nei piani iniziali, ma che ha conseguenze non trascurabili.
La Casa con le Ali è divenuto il punto d'incontro di tutti i volontari e missionari italiani che ruotano intorno ad Iringa, e sono molti. Qui si raccontano storie, si condividono esperienze, si ascoltano novità che coinvolgono il lavoro di tutti, si costruiscono legami e relazioni con persone impegnate nei settori dello sviluppo, della cooperazione e della carità.

Quello che veramente rende speciale la storia di Bruna e Lucio è che tratta di due persone "normali". Essi hanno scelto di vivere in un luogo oggettivamente bello (Iringa e la Tanzania in generale) e di condividere il loro tempo, le loro capacità ed il loro denaro con persone meno fortunate di loro (e di tutti quelli che leggono queste righe). Non sono persone votate al martirio o al sacrificio, ma solo persone che hanno scelto di vivere nel miglior modo che conoscevano e di cercare la propria felicità in una maniera insolita. Non serve avere vent'anni per decidere di cambiare la propria vita e di compiere una scelta coraggiosa; la stessa scelta potrebbe farla chiunque.
Questa storia di normalità è un motivo di speranza per tutti quelli che hanno a cuore i problemi che affliggono l'Africa, per quelli che sono preoccupati del clima di indifferenza che regna nei paesi "sviluppati", e per tutti quelli che serbano in cuor loro il desiderio, un giorno, di cambiare la propria vita e di renderla degna di essere raccontata.

Per chi volesse saperne di più: http://www.nyumba-ali.org/

M.L.

sabato 27 settembre 2008

Sukamawera, la grotta dei pipistrelli

Here the link to download the english version:

https://www.box.net/shared/9s0r4ob3hj

La Tanzania è un paese piuttosto interessante da un punto di visto speleologico, anche perché non è stato ancora del tutto esplorato. Le grotte carsiche più famose si trovano lungo la costa: le grotte di Amboni vicino alla città di Tanga ed il complesso speleologico delle Matumbi Hills vicino a Lindi. Entrambi i siti sono storicamente legati alla rivoluzione di Maji-Maji (1905-1907), nel corso della quale i ribelli trovavano rifugio contro il governo coloniale tedesco proprio all'interno di queste grotte. Molto famose, anche se non altrettanto interessanti, sono alcune grotte coralline che si trovano a Zanzibar. Esse venivano utilizzate dopo l'abolizione della schiavitù (1873) per nascondere gli schiavi che illegalmente continuavano ad essere commerciati.

La nostra spedizione, composta da speleologi forlivesi e romani, si è concentrata in un'area della Tanzania sud-occidentale poco esplorata da un punto di vista speleologico. Lo spunto per questo viaggio è nato dopo una visita casuale ad una grotta generalmente conosciuta come "Pango la Popo" (la grotta dei pipistrelli) in cui una piccola agenzia turistica di Mbeya accompagna i visitatori. In realtà i turisti vengono condotti solamente nel grande salone centrale, perché proseguire sarebbe molto pericoloso. Infatti nel salone centrale si aprono 9 pozzi e parte un condotto orizzontale che scavalca un paio di pozzi e prosegue poi nel buio.
Per amanti degli sviluppi verticali come noi la grotta è apparsa molto promettente. La domanda che subito si è imposta nei nostri pensieri è stata la seguente: "Possibile che nemmeno uno dei nove pozzi prosegua?". Queste sono state le premesse che ci hanno indotto a proporre agli amici speleologi una spedizione esplorativa della grotta.

La preparazione al viaggio ed all'esplorazione ha comportato una lunga serie di preparativi: organizzazione del trasporto del materiale, ricerca bibliografica e raccolta mappe, contatti con gli sponsor, studio dei rischi connessi alla presenza di gas e delle misure di sicurezza più idonee. Particolare cura è stata posta nello studio dei rischi sanitari legati all'istoplasmosi, malattia respiratoria presente in grotte situate nelle regioni tropicali e ricche di guano di pipistrelli, Ultimati i preparativi, la spedizione è ufficialmente partita per la Tanzania nel Novembre 2007.
Una volta raggiunta Mbeya, la città principale della Tanzania meridionale distante circa 800 Km dalla capitale Dar es Salaam, la prima giornata è stata dedicata ad un sopralluogo preliminare e a studiare il materiale bibliografico in nostro possesso. Purtroppo la grotta di Pango la Popo (o Sukamawera o Guano Cave come riportano certi articoli) si trova all'interno di una proprietà privata appartenente ad un gruppo minerario indiano, che ha stabilito una cava di travertino nelle sue vicinanze. La presenza di turisti occasionali è tollerata, ma non vale altrettanto per un gruppo di speleologi italiani. Le nostre ricerche si sono potute quindi protrarre soltanto per quattro giorni, dopodichè siamo stati "gentilmente" invitati ad allontanarci dalla zona.

Pango la Popo - Sukamawera (S 08°53'33.3" E 033°12'53.2") si trova ad un'altitudine di 1193 m s.l.m e si apre presso la valle del fiume Songwe, una valle caratterizzata da depositi di roccia arenaria con affioramenti di travertino. La grotta si sviluppa appunto all'interno di uno strato di questa roccia. Le mappe e gli articoli di stampo geologico hanno evidenziato che questo strato di travertino ha uno spessore di circa 90 m e poggia su depositi di sedimento nei quali la grotta non può proseguire. Le nostre speranze di uno sviluppo verticale sono quindi naufragate in seguito a queste previsioni, che sono poi state confermate dall'esplorazione di tutti i numerosi pozzi della grotta che, incredibile ma vero, chiudono immediatamente.
L'esplorazione della grotta è stata comunque estremamente emozionante ed ha richiesto due dei quattro giorni a nostra disposizione. Nessuno dei pozzi era armato ed il nostro gruppo è stato senz'altro il primo ad esplorarli tutti. A noi va il merito di aver fatto chiarezza sullo sviluppo complessivo della grotta: infatti sul terreno si aprono diverse aperture oltre l'ingresso orizzontale di Pango la Popo, e nessuno sapeva dove portassero. Il nostro rilievo ha dimostrato che all'interno della grotta si aprono due camini e che le aperture quindi conducono e si collegano alla grotta stessa.

In particolare ricordiamo il camino che si apre sul salone centrale e che prosegue in un profondo pozzo . In totale sono 35 metri, la verticale più lunga della grotta.
Pango la Popo, come dice il nome stesso "grotta dei pipistrelli", è conosciuta da tempo anche per l'immensa colonia di chirotteri che l'abita. Molti ricercatori si sono recati e continuano a recarsi in questa grotta per studiare questi animali. Una guida locale ci ha riferito (episodio confermato d amici ricercatori) un avvenimento drammatico legato ad una di queste esplorazioni scientifiche. Come già riportato, questa grotta presenta un numero elevato i pozzi che la rendono, per i non esperti, estremamente pericolosa. Uno studioso di chirotteri si è recato in questo luogo per raggiungere la parte della grotta in cui vivono la maggior parte dei pipistrelli. Nel tentativo di scendere un pozzo impiegando una pertica improvvisata è caduto riportando gravissime fratture in tutto il corpo. Fortunatamente il ricercatore è sopravvissuto, grazie all'intervento dei tanzaniani che hanno improvvisato un'azione di soccorso speleologico calandosi nel pozzo per recuperarlo e trasportandolo quindi in ospedale.
La presenza di queste colonie di pipistrelli è stata oggetto anche di tentativi di sfruttamento commerciale. Dal 1934 al 1957 sono state prelevate 3.223 tonnellate di guano dalla grotta di Sukamawera allo scopo di estrarre composti del fosforo da utilizzare in agricoltura. Ricerche svolte in seguito hanno poi evidenziato che la quantità di principi minerali ed organici resi disponibili dal processo di trasformazione non giustificavano le spese di estrazione e lavorazione.
Esperti della Wildlife Conservation Society hanno identificato oltre 12 differenti specie di pipistrelli che popolano questa grotta, fra le quali la più rappresentata è Hypposideros ruber.
La grande quantità di guano è alla base di un ecosistema complesso, che comprende un'ampia varietà di artropodi dalle dimensioni, forme e colori più disparati. Un lavoro di classificazione tassonomica a questo proposito è ancora in corso.
Inoltre il guano e' uno degli alimenti preferiti da parte delle mandrie di capre allevate nella zona, le quali ogni sera entrano nella grotta per cibarsi di questo alimento nutriente. Gli scheletri rinvenuti in fondo ai pozzi testimoniano che non tutte le capre riescono poi ad uscirne.
Uno degli obbiettivi della nostra spedizione era quello di analizzare e cartografare le sorgenti di acqua calda che si trovano lungo il corso del fiume e nei pressi della grotta.

Nel Maggio 2006 è stato condotto uno studio, da parte di geologi ed ingegneri ministeriali e della compagnia tanzaniana per l'energia elettrica, allo scopo di valutare le potenzialità geotermali a fini energetici delle sorgenti dell'area del fiume Songwe. Questo studio ha rivelato che in profondità vengono raggiunte temperature superiori a 255°C e che i quantitativi di acque geotermali che raggiungono la superficie sono rilevanti ai fini della produzione di energia elettrica.
Le nostre misurazioni delle acque superficiali hanno mostrato temperature comprese tra i 50 e gli 80 gradi e che queste sorgenti sono in grado di innalzare la temperatura del fiume stesso, che per lunghi tratti è superiore ai 30°C.
Inoltre la mappatura di queste sorgenti ha permesso alla nostra geologa (Dorina Testi) di formulare ipotesi interessanti sulla genesi di questa grotta. Tutte le sorgenti si trovano presumibilmente lungo una discontinuità della crosta terrestre, spiegando così le acque termali. La presenza di questa discontinuità potrebbe anche essere all'origine di antiche fuoriuscite di gas che sarebbero le responsabili della formazione iniziale della grotta, la quale quindi potrebbe non essere solo il frutto dell'erosione dell'acqua.

L'episodio che ci ha assolutamente sbalorditi è stato il rinvenimento, nell'ultima parte del tratto orizzontale, di alcune pitture rupestri raffiguranti probabilmente scene di caccia. Un successivo studio attento di alcune fonti bibliografiche ha rivelato che queste pitture erano già state scoperte almeno in due altre occasioni, tuttavia se ne era persa traccia ed in nessuna guida o fonte di informazione sull'area di Mbeya è descritta la presenza di queste prove della vita preistorica. La datazione di questi disegni è al di fuori della nostra portata, ma alcuni articoli che descrivono la presenza dell'uomo preistorico nella valle del fiume Songwe e che quindi confermano l'autenticità di queste opere ci vengono in soccorso.

La bibliografia è concorde nell'affermare che a partire da 200.000 anni fa l'uomo era presente e conduceva migrazioni lungo tutta la Rift Valley. Studi di archeologi americani hanno evidenziato come nella valle del fiume Songwe siano stati rinvenuti utensili in pietra in ben 33 siti diversi collocabili nel Paleolitico Superiore, a partire quindi da 40.000 anni fa. E’ quindi ragionevole pensare che questi dipinti debbano inserirsi in questa epoca.

Secondo le premesse iniziali Pango la Popo - Sukamawera doveva essere un luogo inesplorato e tutto da scoprire. Nel corso delle nostre indagini invece si è rivelata una grotta con una lunghissima storia, teatro di numerosi avvenimenti che la rendono ancor più degna di interesse. La nostra guida ci ha raccontato anche diverse leggende ed avvenimenti di dubbia autenticità sul suo conto. Certo è che all'interno si trovano numerose tracce del passaggio dell'uomo: travi, chiodi, pioli di scale, pezzi di catene, sono tutte testimonianze della presenza di uomini che hanno abitato questo luogo in epoche passate, la cui storia purtroppo non potrà mai essere completamente svelata.

Il nostro programma prevedeva anche un giorno di esplorazione in superficie della valle del fiume Songwe, per evidenziare altri siti di interesse speleologico e per approfondire lo studio geologico dell'area. La valle è estremamente suggestiva da un punto di vista paesaggistico, con fiumi di sabbia, profondi canyon e vere e proprie voragini segno dell'incessante azione delle acque. Questa valle ci ha inoltre regalato un'altra grotta, questa volta assolutamente sconosciuta ed inesplorata (S 08°54'11.8" E 033° 12'50.6", 1216 m s.l.m.). L'abbiamo battezzata "Pango la Tumbili" o Grotta delle Scimmie, perché nei pressi della grotta siamo stati accolti da un branco di cercopitechi chiassosi. Anche questa grotta presenta una sala centrale. Da questa si dipartono due fessure orizzontali (che sembrano proseguire) ed un pozzo centrale affollato di pipistrelli. Purtroppo, per ragioni di peso, non avevamo con noi l'attrezzatura e non ci è stato possibile approfondire l'esplorazione. Il tempo concessoci dal proprietario indiano era scaduto, e della Grotta delle Scimmie resta il pensiero di ciò che potevamo scoprire e di ciò che ci aspetterà al nostro ritorno in questi territori.

M. L.
Riferimenti Bibliografici:
* Geotherme Programme (2006) - Geothermal as an Alternative Source of Energy for Tanzania – http://www.bgr.de/geotherm/projects/tanzania.html

* Middle and Later Stone Age Technology in Southern Tanzania http://www.arts.ualberta.ca/~pwilloug/research.htm
* KAISER V.T.M, SEIFFERT C. (1999) – Reste Urtü mlichen Guanoabbaus in Zentral Tansania, der Anschnitt 51.
* KAISER V.T.M, SEIFFERT C. (2000) – Die travertine am Songwe River ein tropisches karstgeblet in zentraltansania, die Höhle eft 3.
* SPURR AMM (1954) - The Songwe guano caves, Mbeya District. Geol. Surv. Tanganyika Records 1,1951:35-37
* SUNDQVIST, HANNA (2000) - Guano Cave, Songwe area, Tanzania. – A physical geographical description and analysis.
* TEALE, OATES (1935) - Limestone caves and hot springs of the Songwe river (Mbeya) area, with notes on the associates guano deposits. E.Afr.Uganda Nat. Hist. Soc. J. 3 / 4, 130-137.
* WILLOUGHBY, PAMELA R (1992) - An Archaeological Survey of the Songwe River valley, Lake Rukwa Basin, Southwestern Tanzania. Nyame Akuma, 7:28-35.

giovedì 25 settembre 2008

L'autobus di Bomalang'ombe

Un suono nella notte, un rumore in lontananza che squarcia il silenzio ed interrompe il sonno. Gli occhi si aprono di riflesso, la mente tenta di mettere a fuoco di cosa si tratti. Il dubbio dura soltanto un istante, perché è immediatamente chiaro che sono le quattro del mattino ed il suono è il clacson dell'autobus che avverte i passeggeri della partenza imminente. Gli occhi si richiudono immediatamente, il mattino e la sveglia sono ancora lontani.

Ogni mattina l'autobus lascia Bomalang'ombe alla volta di Iringa, per poi farvi ritorno alle cinque del pomeriggio. Una corsa di andata ed una di ritorno ogni giorno, per un viaggio che dura dalle cinque ore (nella stagione secca) ad un tempo indefinito che dipende dalle condizioni della strada. Durante la stagione delle piogge l'autobus non sempre conclude il proprio tragitto, dal momento che può rimanere impantanato in qualche luogo costringendo così i passeggeri a lunghe camminate o a trascorrere la notte al suo interno. Un servizio del genere farebbe accapponare la pelle a chiunque, ma non agli abitanti che popolano i villaggi dei monti della Tanzania meridionale. Per loro l'autobus è il legame con la civiltà, il mezzo per trasportare i prodotti che una volta venduti nel mercato cittadino procureranno il denaro necessario per sopravvivere. L'autobus consente di trasportare verso i villaggi ogni cosa, dal materiale edilizio ai fertilizzanti, dai medicinali agli alimenti che non si trovano nei villaggi. Non solo. I viaggiatori che si spostano grazie all'autobus portano notizie, veicolano informazioni, consentono di interrompere l'isolamento a cui sarebbero altrimenti costretti gli abitanti di queste aree remote.

Sono due le compagnie di trasporti che si alternano per assicurare un servizio quotidiano: Mwafrika (letteralmente: "africano") e Upendo ("amore"). In entrambi i casi si tratta di mezzi scassati che sembrano potersi fermare e cadere in pezzi da un momento all'altro. Uno sguardo distaccato potrebbe quindi non cogliere alcuna distinzione nel servizio (o meglio disservizio) che offrono queste due compagnie, eppure gli abitanti di qui sottolineano le mille differenze che le separano: "Upendo ha un autista migliore", "Mwafrika è troppo spericolata", "Upendo si guasta troppo spesso", "Mwafrika rimane impantanata quasi sempre", "Upendo è più puntuale", e così via.
La gente di questi villaggi si è divisa così in due grandi gruppi di opinione; c'è chi sostiene che Upendo sia l'autobus migliore e chi invece parteggia per Mwafrica. Anche chi scrive si è lasciato coinvolgere in questa diatriba, finendo per sostenere la supremazia di Upendo.
Gli autisti poi, sono le rockstar locali. Quando l'autobus arriva strombazzando di sera, tutti si dispongono lungo il margine della strada lanciando occhiate di rispetto verso quegli eroi che hanno condotto ancora una volta, attraverso mille peripezie, il tanto amato autobus.
La vita di questi autisti inoltre, è al centro del gossip locale, e le loro scappatelle e vicissitudini popolano i discorsi della gente.


Durante la stagione delle piogge, quando la condizione della strada diventa critica, lo sport più praticato dalla popolazione di Bomalang'ombe è il Toto-scommesse. Arriverà oggi l'autobus? Questa è la domanda a cui tutti tentano di dare risposta. Chiaramente l'essersi schierati con l'una o l'altra compagnia influisce sul pronostico emesso: "La strada è troppo brutta, Mwafrica non ce la può fare", "Upendo non rischierà di impantanarsi, si fermerà a Kidabaga". C'è poi chi bara, essendo a conoscenza dell'apertura di nuove voragini lungo il percorso o del blocco da parte di un camion impantanato: "Secondo me oggi l'autobus non arriverà, ho come un presentimento…".
C'è però un momento in cui tutti sono uniti a prescindere dal "partito" di appartenenza. Quando accadono degli incidenti che coinvolgono l'autobus, di qualunque compagnia esso sia, inizia la mobilitazione generale in tutti i villaggi che si trovano lungo la strada; partono le missioni di soccorso con i mezzi più disparati: a piedi, di corsa, in bicicletta, con i motorini. Questi eventi rappresentano la massima calamità concepibile, e non c'è nessuno che non si senta direttamente coinvolto e che non offra il proprio aiuto, che sia mettere a disposizione la propria zappa o procurare delle corde.

Rimanendo a lungo in questi luoghi si rimane un po’ coinvolti in tutto questo. Diventa un piacere indescrivibile quando, dopo una giornata di pioggia torrenziale, si percepisce in lontananza il clacson di un autobus che interrompe il silenzio della notte, e viene spontaneo pensare: "Evviva, anche oggi Upendo ce l'ha fatta".

M.L.

sabato 6 settembre 2008

Tra gli Angeli di Wajir

Caldo opprimente, strade sabbiose sulle quali è persino difficile camminare, vegetazione rada e spinosa. Se la vita nei villaggi africani a cui siamo abituati sembra difficile, questa appare addirittura impossibile. Dove questa gente tragga acqua e alimenti è misterioso.
In questo paesaggio riarso dal sole, migliaia di famiglie conducono una vita normale fatta di gesti semplici e quotidiani; non è difficile comprendere come mai la gente del deserto abbia sviluppato un carattere ed un fisico così coriacei.
I somali sono gente dura e orgogliosa, inasprita da un credo fondamentalista e intransigente. Essi popolano fin dai tempi antichi l'intero nord-est del Kenya, regione semi-desertica morfologicamente più simile al nord-Africa che non all'Africa sub-sahariana.
Wajir si trova ad un centinaio di chilometri dal confine somalo, mentre sono almeno trecento i chilometri di pista sabbiosa e strada disagevole che la separano da Nairobi. Questo è uno dei motivi per i quali Wajir possa essere considerata più una città della Somalia meridionale che non del Kenya settentrionale.
Wajir è senz'altro un luogo di frontiera, lontano da ogni rotta del turismo ed evitato dai keniani stessi, nel quale la sfida maggiore è il confronto con una cultura complessa e poco propensa al dialogo.

Avvenimenti tragici accaduti in Somalia durante la nostra permanenza hanno fatto salire la tensione e ci hanno indotto ancor più a prestare attenzione ad ogni nostro minimo gesto.
Essere cattolici in questi luoghi è assai complicato: ogni religione diversa dall'Islam viene guardata con sospetto e col timore che possa minare lo status quo. Diverse chiese sono state cacciate da Wajir, "colpevoli" di essersi prodigate in opere di evangelizzazione e di aver provocato la conversione di qualche somalo. Ciò non è tollerato, e l'espulsione della comunità religiosa viene accompagnata da atti violenti ai danni di tutte le chiese presenti, cattolici compresi. Un crocefisso privato delle braccia sopra l'altare della Chiesa cattolica testimonia quanto sia delicata la presenza dei cattolici a Wajir.
Ci ha ospitati Pina Russo, missionaria laica romana che ha dedicato gli ultimi otto anni della sua vita a favore della comunità locale. In accordo con la diocesi di appartenenza, la diocesi di Garissa (otto ore di autobus da Wajir!), Pina svolge la sua opera di volontariato senza fini di evangelizzazione, con spirito di pura e disinteressata carità. Questo indirizzo, da sempre portato avanti fin dai tempi di Annalena, ha permesso alla Chiesa cattolica di essere ben accetta e accolta con riconoscenza dalla popolazione.
L'importanza del lavoro che viene svolto tra mille difficoltà ogni giorno a Wajir è proprio questa: costruire un ponte di pace e di dialogo con il mondo musulmano, testimoniando con le opere concrete i valori in cui crede la nostra civiltà, evitando le parole e i giudizi che, se espressi con leggerezza, sono in grado di provocare incomprensioni e risentimento.


Forti del favore che i cattolici hanno saputo costruirsi nel corso degli anni, siamo stati accolti da tutti i somali che abbiamo incontrato con grande cordialità e amicizia, addirittura invitati ad entrare nelle capanne e a sedere al loro fianco.
In questo angolo remoto del Kenya nel corso degli anni sono state realizzate con successo diverse strutture: una clinica per la cura della tubercolosi ed un "villaggio" dove i pazienti possono trovare alloggio per la durata della terapia, una scuola per sordomuti, una scuola per giovani ragazze somale, un centro per la riabilitazione dei bambini disabili, un centro di accoglienza per anziani. L'impronta che Annalena (e chi ha lavorato insieme a lei) ha lasciato qui è molto forte, e molte persone incontrate la ricordano con commozione, rispetto e gratitudine.
Ma non sarebbe giusto parlare di Wajir coniugando ogni verbo al passato.Gli anni sono trascorsi, alcune strutture sono state chiuse, altre sono radicalmente cambiate nell'impostazione generale, altre ancora hanno subito vicissitudini pur mantenendo inalterato lo spirito di carità, condivisione e testimonianza.E' questo il caso del Centro di Riabilitazione, un luogo dove ancora oggi vengono compiuti piccoli miracoli quotidiani.



Nella società somala si riscontra uno dei più alti tassi di disabilità infantile registrabili in qualunque altra parte dell'Africa. Numerose sono le motivazioni: denutrizione, consanguineità, mutilazioni genitali, mancanza di assistenza sanitaria al parto. Quattro figli di cui tre ciechi, tre figli con malformazioni alle gambe… sono solo esempi di situazioni reali di famiglie che abbiamo visitato insieme ai volontari del Centro di Riabilitazione. Oggi l'attività del Centro è portata avanti infatti da giovani volontari kenyani che hanno maturato competenze in ambito ortopedico, infermieristico, fisioterapico. Joseph, Viola, Betty, Fatuma, Rose e Joel seguono e svolgono riabilitazione quotidiana nel Centro a numerosi bambini, visitano nei villaggi di appartenenza quelle famiglie che non sono in grado di portare i loro figli fino a Wajir, costruiscono attrezzature per la deambulazione, distribuiscono alimenti alle famiglie che non sono in grado di procurarseli, somministrano medicinali a bambini che altrimenti morirebbero di banali malattie. Questi ragazzi, senza fondi che non provengano da donazioni di privati, lavorano volontariamente in una maniera estremamente professionale, riempiendo di amore e compassione ogni loro atto. Pina poi assicura al Centro di Riabilitazione una preziosissima opera di coordinamento e supervisione.
Siamo stati testimoni di drammatiche realtà alle quali era difficile anche solo assistere come osservatori. Il lavoro di questi volontari ci ha colpiti profondamente, e l'impegno che ci siamo presi è quello di realizzare un libro fotografico con la vendita del quale contribuire a sostenere il loro operato.
Ciò che è stato realizzato a Wajir in passato è miracoloso. Ma la sabbia del deserto ed il tempo rischiano di cancellare ogni cosa. In quei luoghi i bisogni sono ancora tantissimi e chi opera ogni giorno per farvi fronte va sostenuto con impegno e costanza, perché nulla di ciò che è stato e che ancora vive vada perduto.
(testo scritto nell'Ottobre 2006)

M.L.




mercoledì 6 febbraio 2008

La Pioggia di Ikondo

Chi ha vissuto in un paese tropicale la conosce. Essa è, a tutti gli effetti, quell'insieme di precipitazioni che vanno sotto il nome di piogge monsoniche o stagione della piogge.
Questo fenomeno ciclico si verifica in tutte nazioni bagnate dall'Oceano Indiano durante l'estate australe, quando cioè masse d'aria sature dell'umidità dell'oceano vengono spinte verso la massa continentale asiatica fino alla catena dell'Himalaya, dove vengono spinte verso l'alto per poi ricadere sotto forma di pioggia.
Ciò accade, in Tanzania, per sei mesi all'anno, da Novembre a Maggio. A Maggio i monsoni cambiano direzione, determinando l'inizio dell'inverno australe. In quel periodo i continenti sono più freddi dell'oceano e quindi i venti spirano da terra verso il mare, determinando una stagione caratterizzata da clima secco e mancanza di pioggia.
Questi avvenimenti climatici incidono in maniera profonda sulla vita delle popolazioni che si trovano in queste aree. Le piogge segnano la stagione dell'agricoltura e delle attività da cui deriveranno i mezzi di sostentamento per tutto l'anno. Tutti, ma proprio tutti i tanzaniani, si recano ai campi per piantare mais, patate, girasoli, fagioli e piselli. Anche chi lavora in città ricoprendo magari incarichi di tutto rispetto e lucrativi, ha qualcuno a casa che lavora i campi per lui. Il distacco dall'attività agricola non sembra essere ancora avvenuto, anche in molti contesti urbani.
In alcune regioni della Tanzania piove pochi giorni ed in maniera imprevedibile, complicando immensamente la produzione di alimenti. Ecco che allora la selezione attuata dall'uomo ha "donato" colture che resistono alla siccità, come il sorgo, il sesamo, la manioca, il miglio e l'arachide.
L'umidità che caratterizza la stagione delle piogge determina inoltre le condizioni ideali per l'esplosione demografica della popolazione di insetti, e fra questi del più temibile insetto del mondo, la zanzara Anopheles, il vettore della malaria. Questo è infatti il periodo in cui si ha il picco dei casi e, purtroppo, delle morti a causa di questa malattia.
Le piogge abbondanti sono poi alla base di alcuni ecosistemi molto particolari che si trovano in Tanzania. Le correnti monsoniche, incontrando i rilievi delle Montagne dell'Arco Orientale, causano delle precipitazioni eccezionali sulle pendici di questi monti e alimentano alcune delle foreste pluviali meno conosciute del nostro pianeta. Queste foreste trattengono l'acqua di precipitazione e la rilasciano gradualmente nel corso del periodo secco; sono quindi veri e propri bacini idrici fondamentali per la protezione di corsi idrici e sorgenti.


Questa è la teoria, ed è alla portata di tutti.

Vivere una stagione delle piogge da straniero invece comporta tutta una serie di controindicazioni che non sono riportate nei libri. Se la si trascorre poi in un villaggio sperduto, beh, si può parlare di masochismo puro e semplice.
Ikondo è un piccolo villaggio distante tre ore di sterrato (la distanza non è importante in quanto assolutamente relativa) dal più vicino centro urbano, Njombe. Durante le piogge la durata del viaggio può variare dalle quattro ore ai due giorni, in base allo stato delle strade, dei ponti ed alla presenza di veicoli impantanati in mezzo alla strada ed abbandonati al loro destino. Ogni viaggio è una specie di roulette russa, non avendo alcuna certezza tranne una: non arriverai pulito alla meta.
Quando non si viaggia i problemi sono diversi. Di fatto si trascorre la stagione delle piogge da eremiti, non potendo muoversi né fare passeggiate. Si legge tantissimo, si lavora molto al computer, si guardano film se si ha la fortuna di averne. Non sempre si riesce a dormire, perché a volte la pioggia è talmente forte che lo scroscio provocato impedisce di addormentarsi. La vita chiusi tra casa ed ufficio è noiosa, ma la prospettiva di mettersi per strada, con tutto quello che ciò comporta, la rende preferibile ad ogni altra cosa.
La pioggia cadendo produce un rumore di fondo che all'inizio è snervante, ma al quale poi ci si arrende sconfitti.


Tutto sommato alla lunga si scoprono anche alcuni aspetti per così dire "romantici", per cui assecondando i propri ritmi al clima ci si cala maggiormente in una vita scandita dalla natura e quindi più umana, meno frenetica, più propensa a costruire relazioni. E questo è esattamente ciò che fanno anche gli abitanti di Ikondo. Quando non sono nei campi si trovano e parlano per ore ed ore (oltre che bere litri di alcolici a base di mais fermentato). Oppure non fanno semplicemente nulla, osservano la pioggia mettendosi in quello stato di attesa passiva così bene descritto da Kapuscinski e che lascia sbalordito quanto perplesso chi viene dalla nostra parte del mondo. Vivendo un periodo lungo in un villaggio come Ikondo si inizia a comprendere questo stile di vita apparentemente inoperoso, che in realtà è solo un adattamento al clima. Queste persone attendono, immobili, un solo momento.
Improvvisamente il rumore di fondo, che durava ormai da sei mesi, si interrompe e rimane solo il silenzio. Le piogge sono finite, ed inizia una nuova stagione della vita.

M.L.



lunedì 4 febbraio 2008

Pensieri Malgasci

Durante le sei settimane in cui ho girato per il Madagascar e sono stato ospite della missione di Tsiroanomandidy, ho scritto un diario di viaggio. Seguono alcuni brevi episodi ed estratti recuperati tra le numerose pagine che sono scaturite.


Questo è il pianeta Africa, prendere o lasciare. Non esistono compromessi : fame, povertà, allegria, meraviglie della natura e milioni di volti segnati da vite durissime. Ho ritrovato questa gente come l’ho lasciata: un popolo in cammino… lento e stentato, ma in cammino. E questa volta sono in strada anch’io!

Balene! Anzi, megattere! Finalmente il sogno si realizza. I maschi oggi erano in gran forma, e non hanno lesinato salti e acrobazie incredibili per animali di oltre trenta tonnellate. Le femmine, compassate e civettuole, li seguivano senza mostrare troppi entusiasmi. Quello spettacolo di cetacei mi ha divertito al pensiero che, in fondo, non si tratta altro che dello stesso comportamento che nei millenni i maschi di tutte le specie animali hanno selezionato nella fase che precede l’accoppiamento… specie umana compresa! Chiamasi esibizionismo.


Questa mattina, essendo brutto tempo, mi sono recato sulla spiaggia a raccogliere conchiglie. Si sono unite a me, spontaneamente, tre bambine malgasce incuriosite da quello strano “vazaha” (straniero) intento a raccogliere qualcosa per loro senza valore e comune quanto la frutta sugli alberi. Subito è iniziato un nuovo gioco, ovvero porgere al tizio bianco conchiglie sperando che le accettasse e le riponesse nella noce di cocco porta-oggetti. Ad un certo punto ci siamo trovati lungo un tratto di battigia dove le onde erano forti, l’acqua alta e a fatica si riusciva a rimanere in piedi. La più piccola si è messa a piangere non riuscendo a proseguire oltre. Mosso a compassione l’ho presa in braccio e lei, sentendosi finalmente al sicuro, ha smesso di piangere. Un pensiero che subito mi è saltato alla mente è che sarebbe bello con la stessa facilità di quel gesto risolvere alcuni dei terribili problemi che affliggono il Madagascar […].
A questo episodio ho pensato anche in seguito. E la conclusione è che offrire il proprio contributo in realtà è veramente facile come prendere una bambina in braccio. Due soli esempi: per mandare a scuola 250 bambini per un mese sono “sufficienti” 30 euro; per completare la costruzione dell’unica scuola di un villaggio mancano “solo” i 70 euro necessari alla realizzazione del tetto. Eppure, quei 250 bambini e quel villaggio rimarranno senza scuola, perché quei soldi non ci sono.


Mi trovo in piena notte presso un distributore di benzina, piegato sotto il peso del mio zaino, fermo su un marciapiede intento a scrivere il diario quotidiano, in attesa di un fantomatico mezzo di trasporto di passaggio che, tra parentesi, ho già pagato. La mia situazione è di per sé assurda, soprattutto perché si basa su una sconsiderata fiducia verso africani che nemmeno conosco. Ma la situazione diventa improvvisamente interessante e divertente. Il luogo dove sono è un vero e proprio crocevia di auto, autobus, bambini che vendono ciambelle fritte e frutta colorata riposta su vassoi di legno adagiati sulla testa, una vera e propria folla di vagabondi che bighellona senza uno scopo preciso. Superato l’iniziale momento in cui tutti mi vedevano come un potenziale acquirente delle cose più impensabili, le relazioni si sono evolute in una direzione imprevista. Tutti a turno si sono avvicinati chiedendo chi fossi, che ci facessi lì, dove fossi diretto. L’attesa è durata oltre due ore, è quindi facile immaginare quante persone io abbia potuto conoscere! Le persone più anziane hanno cominciato a disquisire e scommettere tra loro se fossi riuscito o meno a prendere il mio trasporto, i bambini delle ciambelle di loro iniziativa si sono prodigati a chiedere a tutti i bus di passaggio dove fossero diretti e se ci fosse una prenotazione di un bianco, alcune ragazzette si sono proposte in sposa, i venditori più creativi hanno cercato nuovi articoli, ancor più surreali, che mi potessero interessare… Ero una vera e propria celebrità!
Per completezza di cronaca: dopo due ore e mezza di attesa è arrivato il mio passaggio, carico di enormi bagagli, un divano ed una motocicletta.


Sono arrivato alla missione e del mio contatto (Goffredo) nemmeno l’ombra. Tra l’altro mi sarebbe piaciuto trovarlo, perché ci sono arrivato accompagnato su una moto da trial da un tizio della città che andava nella stessa direzione, e il vedermi arrivare in quel modo sarebbe risultato certo spettacolare. In questo modo però ho avuto l’occasione di inserirmi magnificamente, facendo salti mortali con il mio francese e imparando le parole chiavi malgasce. Ad esempio oggi sono stato con una micro - suorina malgascia più larga che alta in un villaggio chiamato Miandrarivo, che nella lingua locale credo significhi “villaggio alla fine del mondo”, perché per arrivarci abbiamo dovuto seguire una lunga e impraticabile pista polverosa, e le case si trovano letteralmente disperse in mezzo al nulla, senza corrente elettrica né acqua potabile. Ero il secondo bianco che varcava le soglie di quel villaggio, e molti dei bambini (che avevano mancato per la giovane età il bianco precedente) non mi hanno staccato gli occhi di dosso per tutto il tempo.


Questa la devo scrivere: c’è una donna a Tsiroanomandidy che da 8 anni attende in prigione di essere processata per un furto di banane. Una vita distrutta a causa del fatto che qua il sistema giudiziario è sommario e inefficace.
Questo paese è strano. L’apparenza è quella di un luogo dove sembra impossibile poter vivere male: pieno di risorse, posti meravigliosi, dove la natura distribuisce generosa i suoi frutti. Invece la società è poverissima: non esiste sanità pubblica, scuole decenti, giustizia, le malattie sono molto diffuse, le vie di comunicazione sono in condizioni agghiaccianti. Mi ero convinto dai viaggi precedenti che in Africa si dovessero considerare due livelli: quello superficiale, dell’apparenza, in cui questi paesi mostrano il peggio di sé e suscitano il rigetto da parte di noi “ricchi”. Il livello più profondo invece è quello della gente, delle relazioni umane, della natura più incredibile del mondo, della musica, delle danze e dell’allegria perpetua. Qui forse le sono più complesse, ed è difficile demarcare un limite netto tra dolore e gioia, meraviglia e disgusto.
(Testo scritto nel Luglio 2005)
M.L.