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sabato 26 novembre 2022

Il Respiro della Foresta

Il respiro della foresta è un viaggio scientifico e spirituale nelle foreste tropicali dell’Africa e dell’Asia, il racconto emozionante di come la frequentazione di questi straordinari ecosistemi abbia formato una coscienza ecologica “integrale” e determinato la consapevolezza della necessità di azioni urgenti e concrete per arginare l’opera di distruzione che gli esseri umani stanno infliggendo alla propria casa comune.

Uno strumento utile per viaggiatori, educatori e ragazzi che vogliono andare alla scoperta della complessità degli equilibri che regolano la stabilità ecologica e climatica del nostro pianeta. Un appassionato tentativo di dimostrare come tutto sia collegato, e perché ciò che accade nelle foreste pluviali è determinante per il futuro della nostra specie.

La foresta pluviale tropicale è la realtà più complessa della quale un uomo comune possa fare esperienza su questo pianeta. Una camminata nella foresta pluviale equivale a una passeggiata nella mente di Dio” Biruté Galdikas

Il Respiro della Foresta può essere acquistato su:

Orme editore

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Feltrinelli

Mondadori

Il Libraccio

 

lunedì 6 giugno 2022

Desiderio e Paura

C’è una cosa che continuo a chiedermi da quando siamo tornati. Se ho lasciato qualcosa alle persone che ho incontrato…. un sorriso, uno sguardo, un gesto. Se quando ci incontreremo di nuovo si ricorderanno di me. Io, di sicuro, mi ricorderò di loro.

 

Ho collezionato a lungo foto, articoli, proposte di viaggi, racconti, pagine di riviste sull’Africa, sospirando al desiderio di scoprirla, terrorizzata dalla paura di scoprirla! Un controsenso, lo so, fondato sulla consapevolezza che ‘ciò che è stato scoperto, lo è per sempre’. Proprio lì si fondono desiderio e paura, nel momento della scoperta, dove fai i conti con quello che è, non più con quello che avevi pensato. E il rischio è che sia deludente, o ti faccia desiderare di scoprirne ancora un po’...

Di quella piccola parte di Tanzania che ho scoperto me ne sono innamorata e molte cose resteranno con me.

Potrei fare un lungo elenco di sorrisi, sguardi, strette di mano, discorsi di saluto, studenti, strade; colori violenti, alberi, animali ed insetti, strade polverose e vita che ci brulica accanto…  che sono passati dai miei occhi per rimanere nel mio cuore. 

 

Oppure posso fare questo: fare un augurio a chiunque da sempre sogni di partire per l’Africa. Avere la possibilità di fare un viaggio così: auguro la possibilità di tornare a casa da una piccola parte di Africa, disillusi oppure innamorati. Di certo non indifferenti.  

 Tania

venerdì 14 dicembre 2018

Attenti al Rinoceronte

“Attenti al Rinoceronte” è una carrellata di incontri con rappresentanti celebri e meno noti dell’universo animale africano. L’autore ripercorre gli eventi più curiosi avvenuti nel corso di vent’anni di viaggi in Madagascar, Tanzania, Kenya, Zambia, Congo e Rwanda. 
I protagonisti sono gli animali più disparati: dalle piccole termiti ai giganteschi elefanti, dalle megattere dei mari del Madagascar ai gorilla delle foreste montane del Congo, dai timidi lemuri ad uno scontroso rinoceronte.
Ogni episodio diventa il punto di partenza per raccontare gli aspetti meno conosciuti ed affascinanti di queste creature: le loro abitudini, la loro dieta, la loro società, il loro habitat. 
La riflessione poi si allarga alla posizione che gli animali occupano nel loro contesto naturale ed alla seria minaccia che grava su tutti gli ecosistemi trattati: mari, foreste, deserti e savane. La conservazione della varietà vegetale e animale degli ambienti naturali è la grande sfida che dominerà

lunedì 15 ottobre 2018

La Crosta dell'Africa


Nudos Amat Eremus
Il Deserto ama coloro che non hanno Nulla
(San Girolamo)

Ho capito recentemente quanto sia importante accompagnare persone alla scoperta dell’Africa. Frequentando con assiduità i progetti (perché questo è ciò che faccio) ho finito per dare per scontati tantissimi aspetti che invece mi avevano infiammato all’inizio. Inutile negarlo: con il tempo si perde un po' di poesia e le emozioni si fanno più sfumate. Sento l’esigenza di partire, di tornare, ma a volte fatico a ricordare il perché.
Quando a viaggiare non sono solo è tutto diverso. È come tornare indietro nel tempo. Riesco a rivivere tutto attraverso gli occhi, le emozioni, gli interrogativi di chi è al mio fianco.
L’Africa ha due piani di lettura.
C’è la crosta, il piano superficiale, che contiene il disagio, la povertà, i contrattempi, le malattie. È la

mercoledì 5 settembre 2018

La lentezza è equilibrio, la noia è armonia

Il grande salone rifiuta la luce già aggressiva delle otto del mattino. Jean-Claude mescola i chicchi nel piatto trasparente in cui navigano polpette di riso. Mi porge una tazza di plastica arancione colma di caffè: se la guardo dall'alto mentre la reggo tra le mani penso a un girasole. L'amministratore Jean-Claude dice di essere felice di averci al suo fianco durante questa trasferta. "Sambatra izahay koa" anche noi siamo contenti. Sono ormai la le 9:30 quando la Nissan Patrol bianca abbandona il parcheggio del seminario, direzione Ankadinondry. Una bandiera bianca e gialla ondeggia sul tetto
dell'autovettura: ne osservo i lembi visibili dal mio sedile, rapita dalla lentezza dei suoi movimenti nonostante la grande velocità che ci trasporta. "Sembra ci abbiano riservato un'accoglienza non indifferente" biascica l'amministratore tra una telefonata e l'altra. È un corridoio largo: a terra c'è un tappeto di terra rossa. Jean-Claude è vestito di nero ed indossa grandi occhiali da sole, io e Roberto lo seguiamo. Saranno state duecento, trecento, forse quattrocento persone, in piedi come alberi lungo il viale e a mani giunte come statuette da credenza. Stringo almeno cento mani: ruvide, appiccicose, di bimbo, di età, alcune morbide, lisce ma vigorose, altre quasi inermi. Le due file di persone sono come ballerini prima di una quadriglia: dopo il nostro passaggio si avvicinano, le

lunedì 3 settembre 2018

La scuola di fango

Dopo un picnic tra i pulcini a casa di Naina permetto all'aria calda di asciugarmi la fronte, ma solo per qualche secondo: è già ora di ripartire. È un villaggio in cui il rosso diventa marrone e il tetto di paglia delle case sembra ritagliato e incollato su un cielo azzurro e bianco. Le nuvole sono dipinte con un pennello grande sporcato di bianco; un pennello più sottile accarezza i contorni con linee veloci. Gli abitanti sono come statue nel meriggio montaliano, illuminate dalla mistica luce di un temporale in arrivo.

I bambini non sono come quelli di Tsiro: sono nascosti dietro gonne di mamma, gli occhi non
sono imbarazzati ma impauriti. Alla mia sinistra un neonato sta cigolando a ritmo di singhiozzi da quando siamo arrivati. Siamo qui per assistere alla realizzazione dell'olio di arachidi: menaka gasy. La legna alla mia sinistra diventa fumo, presumo per cuocere le briciole che profumano di autunno dentro al grande sacco alla mia destra; io sorrido ai bambini. Quando ricevo qualche timido accenno in risposta, proseguo con giochi di battiti di mano e di nomi da ricordare: è appagante vedere l'incurvatura delle labbra sbocciare in una risata e sentirsi in parte responsabile.
Una trentina di persone vestite di colori e terra ci circonda, ma i miei occhi sono per il fuoco che profuma di cinema e colazione: come è possibile che anche qui, ora, io mi senta quasi a casa?

sabato 1 settembre 2018

Un Distillato di Sorrisi

Mi piace seguire i ritmi della natura. Il risveglio che segue il sole, odore di tappeti e polvere e cosce stirate da gambe incrociate, mani sulle ginocchia. Gli occhi sono chiusi per permettere ai pensieri di uscire dalle sottili fessure delle ciglia: li lascio liberi di osservare dall'alto, per permettermi di iniziare la giornata con più consapevolezza di ciò che ho attorno. Dopo la partita di basket delle otto del mattino, si balla sulle note di "Avec Toi", a piedi nudi sulla terra rossa. La musica è disturbata dal clacson del fuoristrada di Naina. La sabbia rimane sola, in compagnia di impronte di piedi diversi, uniti nella stessa danza: sigillo di un momento che si sbriciola, diventando un pensiero.
Sobbalzo e rimbalzo, il che rende più difficile cantare Avec Toi per animare il viaggio di andata. Le ruote imponenti dominano la strada ondulata e appuntita sotto la vigile guida di Naina, che sorride al volante quando parlo malgascio.
Dal finestrino osservo susseguirsi senza sosta fotografie di paesaggi di luna che sorge. Arriviamo a Besaika: mentre Naina abbassa il finestrino per salutare qualche conoscente a pochi metri da lui, io

giovedì 30 agosto 2018

Una Coperta di Capelli Nuovi


Sono le 14. Sono comodamente seduta su un grande sasso liscio e piatto nel giardino delle Petit Soeurs Marie Magnificat. Il sole, inizialmente piacevole, è ridondante. Sono immersa nello stato d'animo dell'attesa, suggerito dai frequenti cambi di posizione a cui involontariamente sottopongo il mio corpo. Sembra la mattina di Natale quando, finalmente, intravedo otto piccoli occhietti dalla fessura del grande cancello socchiuso! Eccoli. Sono Mariná, Hasina, Claudie e un bambino che ho deciso di chiamare Martin come risultato dell'assemblaggio dei suoni che percepisco quando sussurra a testa bassa il suo nome. Mariná, Claudie e Martin sono qui solo come accompagnatori: Suor Marie-Jeanne ha convocato solo Hasina. Ha i piedi nudi ma puliti, una gonna di tessuto

martedì 28 agosto 2018

Un bicchiere di latte

Intingo ritmicamente le gallette all'interno dell'acqua calda nella mia tazza bianca, senza manico. Ascolto il suono di questa lingua, incarnato dalle voci corpose di Suor Marie-Jeanne e Suor Benedicte. Una successione di vocali strascicate e consonanti gutturali che si annodano l'una con l'altra e mi trasportano in una dimensione ancestrale. Anche il più banale dei discorsi appare solenne quando non posso comprenderlo. Colgo alcune parole come "rahampitso" che significa domani, qualche numero che probabilmente indica un orario, un paio di nomi di suora. Suor Ernestine termina il suo monologo in

venerdì 26 gennaio 2018

L'Eremo nel Deserto (Ho pregato con un'aquila)

“Vieni nel deserto, Io parlerò al tuo cuore” (Osea [2,16])

“Dio creò il deserto perché gli uomini potessero conoscere la loro anima (proverbio Tuareg)


L’avevo promesso a me stesso: la prossima volta che fossi venuto a Wajir mi sarei concesso un periodo di deserto all’interno dell’eremo che Annalena (lei lo chiamava “eremitaggio”) aveva costruito. Eccomi qua, sulla cima della torre. Il clima è fantastico, imprevedibilmente arieggiato e piacevole, lontano dal riverbero della sabbia incandescente. C’è silenzio, sento solamente i suoni della natura fino a quando i muezzin decidono che è giunta l’ora di richiamare i fedeli alla preghiera. All’esterno delle mura dell’enorme terreno assegnato al Rehab è sorta una città. All’interno c’è


qualche piccolo edificio ma il paesaggio è lo stesso bush selvaggio che vedeva Annalena 43 anni fa, quando costruì l’eremitaggio. Sono sbalordito dalla quantità di uccelli che mi circondano: storni blu, buceri, turachi, colombi, tessitori, ibis, marabù. L’incontro più incredibile è però un nibbio dal becco giallo che mi rimane accanto, appollaiato sulla cima dell’acacia del cortile dell’eremitaggio, per quasi un’ora. Rimane immobile ma attentaofino al momento in cui decolla planando sotto di me. Mi sento un privilegiato e sento il cuore galleggiare. Ho portato con me la raccolta delle lettere di Annalena (Lettere dal Kenya – 1969-1985). Rileggo le parti che riguardano l’eremitaggio, ed ora assumono un significato ed un valore che mi sovrasta e mi commuove…


13 aprile 1970
In Africa o si è contemplativi o si fallisce tutto e chi ci rimette sono sempre loro: i poveri. Qui non c’è nessuno o quasi nessuno in grado o disposto a darti quell’ossigeno spirituale senza il quale
l’anima è in continuo pericolo di asfissia. Per questo costruiremo presto il nostro eremitaggio per la nostra giornata di “deserto” settimanale, per quello più lungo annuale e per offrire silenzio, solitudine, pace a tutti quelli che vorranno venirci, i bianchi naturalmente, perché sono loro ad averne bisogno.

8 febbraio 1975
Naturalmente nell’eremitaggio non metteremo mai né luce né acqua. L’acqua l’attingeremo a mano dal pozzo e la luce dal fondo dell’anima… poi ho comprato del ferro di scarto, meglio del ferro vecchio per farne una specie di pioli incassati in un angolo del muro della cappella per salire fino alla cima della torre. Forse non vi ho ancora spiegato che la cappella dell’eremitaggio l’ho ideata come una torre tutta vuota dentro fino al tetto. Alla sommità intendo lasciare solo quattro colonnine agli angoli e il resto tutto aperto per permettere di spaziare liberamente sull’orizzonte, per cui ho ideato una specie di scaletta incassata nel muro per salire fino in cima alla torre.

10 febbraio 1975
Il pozzo tende verso il centro, gli alberelli vagheggianti, è un sogno un balsamo per il cuore andare
laggiù anche quando il sole è implacabile. Prendimi alla lettera… uno starebbe sempre là. Già il cuore sperimenta una pace, una dolcezza, una serenità insondabili. E’ una condizione di riposo dell’anima, un allentamento dolce, senza scosse, di tensioni radicate nel profondo, uno stato di fiducia senza tremiti, senza bui, senza debolezze, proprio come un bimbo sul seno della sua mamma.

14 ottobre 1975
La gioia di poter dare a un altro, a un pellegrino dell’Assoluto come noi, a tanti e poi tanti che verranno alla ricerca di silenzio, assetati di Dio… la gioia di poter dare, dicevo, di poter offrire il nostro eremitaggio unico al mondo, è talmente “divina” che sarei pronta a costruirne un altro per noi pur di poter costantemente offrire il nostro a chiunque volesse venirci a fare un’esperienza di “deserto”.

5 novembre 1982
Stesa sulla stuoia in cappella nel vuoto alto e austero della torre, contemplavo le meraviglie di Dio… non è possibile che esista un altro luogo al mondo come il nostro eremitaggio. Come ho potuto pensarlo così profondamente mistico, sobrio, austero, gli alberi di spine verdissimi pieni di uccelli da favola, il pozzo della samaritana, l’acqua della vita, il cielo da ogni lato, il muro altissimo che esclude e spalanca su orizzonti infiniti…


23 dicembre 1983
Mi sono persa nell’ascolto del vento, dei canti degli uccelli, delle imposte che sbattono leggermente… mi sono persa nell’incanto delle rose del deserto che mi sorridono brillanti qui appena fuori dalla porta, dalle finestrelle ricamate, di queste mura rosa che sanno di pace e di antico. Tutto amo qui: gli alberi di spine, il pozzo rotondo col ferro ritorto e la carrucola e le parole scritte tanti anni fa e ormai sbiadite: “la mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?”. La torre cava e quei pioli conficcati nel muro con quella salita un po' ardua a significare che non si entra se non per la porta stretta, non si cammina verso Dio, ma ci si inerpica e il respiro deve farsi faticoso e il cuore deve tremare perché Lui è santo e poi perché l’attesa di ogni incontro d’amore fa tremare il cuore.

domenica 29 gennaio 2017

Cittadini del Mondo

Così come per gli antichi, che mossi dalla curiosità hanno viaggiato spingendo la conoscenza oltre i confini della propria terra, così noi, spinti a lasciare ogni comodità e in una buona sfida con noi stessi, ci metti amo in movimento verso il nuovo, in un’avventura in cui la Conoscenza è la rotta da seguire. E la conoscenza inevitabilmente, svolgendo il suo ruolo, ha permesso:
_ Incontri con persone che vivono sotto altre latitudini, genti di un altro colore, di un altro odore, impolverati, sdentati, a piedi scalzi con vestiti abbinati ai più diversi colori, in cui scoprire la dimensione vera dell’altro, che non sarà più estraneo.
_ Condivisione con persone che vivono di quella povertà che è la sopravvivenza, in cui capire forse un po’ di più l’opulenza della nostra vita e lo spreco delle nostre tavole.
_ Relazioni umane fatta di gesti, essenziali, nella quale gli occhi ed il sorriso dicono più di tante parole, in cui dimenticare le simpatie, le antipatie, le gelosie e le invidie.
_ Di attraversare Luoghi mozzafiato, dall’oceano alla foresta pluviale, sulle lunghe polverose strade spesso sconnesse, di spazi infiniti, in cui il viaggio si colora di piogge e arcobaleni improvvisi.
_ Incontrare Bambini, tanti bambini, dove spesso i piccoli si occupano dei più piccoli, e scoprire che la scuola è un lusso.  
In questo lusso che loro non possono permettersi c’è il senso del viaggio: conoscere per contribuire a migliorare le situazioni. Nell’educazione si forma l’identità consapevole della persona. Chi conosce può migliorare sé, gli altri ed il proprio paese.  Se il viaggio non lascia indifferenti, insensibili, diventa Dono in uno scambio delle “ricchezze” di ciascuno.
Il viaggio metafora della vita costruisce il Senso del nostro andare.

Essere cittadini del mondo significa diventare uomini e donne responsabili, significa cercare di abitare la terra con giustizia ed equità in cui gli unici steccati usati sono quelli per non disperdere gli zebù!!!

TUGNA (Capo Scout Gruppo Forlì8)

sabato 17 dicembre 2016

Viaggio in Madagascar: la Prospettiva di un Amante delle Stelle

La prima sera trascorsa in Africa, quasi non ci potevo credere. “Cos’è quella nuvola lunga e stretta che attraversa tutto il cielo?” mi chiedevo sbalordito. Sì, perché anche uno come me, che le stelle le ha amate sin da bambino e che ama andare a cercare tra le montagne del Trentino cieli bui e lontani da ogni luce artificiale, uno spettacolo del genere non l’aveva mai visto. Quella scia bianca, la Via Lattea, così elegante nel suo pallore, era tanto nitida sullo sfondo nerissimo del cielo che per un attimo i miei occhi si erano rifiutati di riconoscerla. Eccole lì, le centinaia di miliardi di stelle della nostra galassia, tutte in fila: sin da piccolo sapevo quante fossero, ma in quel momento mi pareva di poterle toccare una a una.

domenica 14 agosto 2016

Memorie dal Genocidio

Le chiese di Nyamata e Ntarama e il Kigali Memorial Centre sono luoghi in cui viene custodita la memoria di un’apocalisse. Le dimensioni di ciò che le milizie Hutu perpetrarono ai danni di Tutsi e Hutu moderati non furono raggiunte nemmeno dalla terribile e organizzatissima macchina nazista.
La visita di questi luoghi sconvolge nonostante sia noto ciò che avvenne nei numeri e nei tempi. Ciò che invece non viene sufficientemente evidenziato sono i fatti che precedettero la carneficina e soprattutto quelli che seguirono e che provocarono un numero di morti immensamente superiore. Ampliando l’analisi alle cause e alle conseguenze emerge come gli europei abbiano sulla coscienza la vita di milioni di persone e le mani grondanti il loro sangue.
Durante il periodo coloniale belga, la popolazione del Rwanda fu divisa nei suoi principali gruppi etnici: Tutsi, Hutu e Twa (il popolo pigmeo). La carta d’identità di ogni cittadino ruandese, a partire dal 1930,  recava in bella vista la sua appartenenza etnica. I belgi inoltre puntarono solamente sulla minoranza Tutsi per ricoprire gli incarichi di potere e di responsabilità. La chiesa cattolica ebbe la sua dose di responsabilità sposando l'ideologia camitica secondo la quale i poli provenienti dal bacino del Nilo, come probabilmente i Tutsi sono, erano superiori per intelligenza e capacità ai popoli negroidi. Tutto questo contribuì ad

lunedì 29 luglio 2013

L'Africa di Moravia

Alberto Moravia ebbe una bruciante e insaziabile passione verso l’Africa. Insieme alla compagna Dacia Maraini visitò, tra il 1962 e il 1979, una quindicina di nazioni africane alcune delle quali furono meta di più di un viaggio. Nei tre volumi Passeggiate Africane, A quale Tribù appartieni? e Lettere dal Sahara sono raccolti i diari compilati nel corso dei loro viaggi. A questi viaggi parteciparono anche altri artisti come Pasolini e Maria Callas. Nei confronti delle popolazioni locali Moravia adottò un approccio di tipo antropologico, descrivendone dettagliatamente tradizioni, abbigliamento e stili di vita. L’aspetto più interessante di          questi scritti risiede nel fatto che Moravia fu in grado di compiere una vera e propria lettura esegetica delle realtà che incontrò, la cui interpretazione lo portò a formulare un tema che ricorre costantemente in tutti i suoi testi. Egli era convinto infatti che l’Africa fosse rimasta preistoria, perché in Africa la storia non si frappone tra l’uomo e la Natura. E la preistoria incute una paura ancestrale nell’uomo.  Secondo Moravia la paura ed il mal d’Africa sono lo stesso sentimento che viene provato ad intensità diversa dagli africani e dagli europei.
Il mal d’Africa è un fascino con un fondo

giovedì 23 maggio 2013

Lettera dal Madagascar (2)

Carissimi,
Il giorno di Pasqua siamo stati nel villaggio di Miandrarivo, la celebrazione è stata fatta nel cortile della scuola di Paolo. Per noi è stata Pasqua tre volte, uno perché Pasqua è Pasqua, due perchè eravamo insieme alle suore della Scuola di Paolo, tre perché ci erano venuti a trovare tre volontari che lavorano ad Ambositra: Cristina, Chiara ed Ernesto ed essendo stata la seconda visita di volontari da quando siamo qui, eravamo a dire poco euforici. Tra l’altro, Ernesto e Cristina son l’uno psichiatra e l’altra psicologa e Sr Marie Jeanne non ha mancato di chiedere consigli per i bimbi della sua scuola. Con una definizione impropria e generica di difficoltà di apprendimento e ritardo mentale la scuola di Paolo accoglie alle elementari 50 bimbi su circa 500. E’ stato molto bello vederli scambiarsi consigli: gli uni felici di donare le proprie competenze e le Suore contente di accogliere consigli da poter utilizzare a scuola.
Per quanto riguarda il progetto dell’acqua, i

mercoledì 22 agosto 2012

Il Diario dei Turisti Responsabili

Di seguito alcune parti del diario scritto dal gruppo di Trento nel corso del viaggio in Tanzania di Luglio.

Partiamo da Iringa alle ore 7.30, dopo aver acquistato farina e zucchero per la Primary School. Affrontiamo una strada sterrata con buche. Molte sono le persone che camminano lungo la strada; indossano vestiti multicolori e si recano alla messa. Le moto, le bici e le teste delle donne sono anche mezzi per il trasporto di merci (legna, sacchi di farina e taniche di acqua). Ad un certo punto l’ambiente diventa verde sia per le coltivazioni come granoturco, piselli, patate, sia per la vegetazione che cresce nei boschi (eucalipti, pini con aghi lunghi e sottili). Arriviamo a Bomalang’ombe alle 10.30 per assistere alla Messa: molto commovente la partecipazione della popolazione al rito, con balli e canti, il parroco che sta in mezzo alla chiesa durante la predica e ci invita a presentarci alla comunità.

martedì 24 aprile 2012

A Pelo d'Africa

“A Pelo d’Africa” è un libro eccezionale. Pubblicato nel 1978, racconta il viaggio intrapreso dal giornalista Giorgio Torelli e dal comandante Pino Bellini alla volta del Congo per consegnare un piccolo aeroplano Piper ai missionari di Uvira, nel Kivu. Dopo ventitré giorni e diciassette atterraggi i due avventurieri arrivarono nell’odierna Bujumbura, in Burundi, da dove poi il Piper fu trasportato fino in Congo. I fatti risalgono all’anno 1962 e al tempo ebbero una notevole risonanza mediatica. La scintilla che mosse Torelli a progettare il viaggio fu la notizia che i missionari in Congo sarebbero rimasti al loro posto nonostante l’eccidio di Kindu, in cui tredici aviatori italiani furono trucidati dai guerriglieri.
Torelli decise di rispondere all’appello dei missionari e si adoperò per trovare un aeroplano che li potesse aiutare nella loro opera di evangelizzazione e di assistenza alla popolazione locale. Il piccolo Piper Eden sembrava troppo piccolo per affrontare un viaggio così lungo e difficile, ma il giornalista persistette e trovò nel comandante forlivese Bellini un coraggioso compagno di viaggio e sostenitore. Il 25 ottobre 1962 i due viaggiatori partirono dall’aeroporto di Forlì con due piccole valigie, uno scatolone contenente un presepe per i missionari, alcuni razzi di segnalazione ed un revolver.
Riporto due tra i brani che più mi hanno entusiasmato. Il primo riguarda il momento più critico di tutta la trasvolata, quando l’aeroplanino ha dovuto attraversare una tempesta di sabbia sul deserto libico, mentre i militari di una base militare americana negavano loro l’atterraggio di emergenza.
Bellini richiama, richiama e richiama ancora. Solo il vento con noi e noi con lui. Adesso non si vede neanche più Tripoli, procediamo a orizzonte artificiale dentro un tunnel di grigio imperlato. Roger, gracchia al quarto appello di Bellini la radio americana che a questo punto – appare chiaro ai condannati – risponde per obbligo internazionale di rapporto fra terra e cielo, ma se ne stropiccia, non gli piacciamo, ci siamo di troppo sul suo spazio, fuori dai piedi e dai pollici, se ci sfracelliamo è perché non dovevamo involarci.
Col fiato grosso come ho, sento che l’assoluto buio sui minuti avvenire ci separa da non so cosa, improbabilmente dalla salvezza, quasi certamente dall’addio; ho già indossato il tumulto dei sentimenti e anche quel lindore che forniscono i frammenti decisivi del tempo. Perciò avverto intera e mirabile la grandezza romagnola di Bellini che, strabattendosi della potenza americana, branca il microfono, picchia il pugno destro sull’apparato-radio e mentre governa con la salda sinistra quel che resta di noi – una scatola scossa – urla alla base atomica con quanto fiato gli resta: “Roger, ‘sti dù maròn!”.
Il secondo estratto racconta il sorvolo delle savane popolate dalla celebre fauna africana. I due si trovano, proprio nel momento di massima contemplazione di quel meraviglioso paesaggio, a fronteggiare un attacco di dissenteria del pilota che la mattina, per aspirare dell’olio versato in eccesso da un addetto dell’aeroporto di Juba nel motore del piper, era incorso in una involontaria quanto abbondante bevuta.
Mi par di leggere sul nero degli strumenti che stiamo a ottocento metri di quota, a moti e sbalzi da aquilone. E’ un’altezza irrilevante, si vede e si gusta tutto. Sotto di noi, come uno sterminato ventaglio, si sono schiuse le prospettive d’erba. Branchi puntiformi di animali, che sono certo gazzelle, antilopi e poi bufali e poi zebre e gnu, anche facoceri e loro parenti di radunata destinati a mangiare e bere, pellegrinare e percorrere le ore dall’alba alla luna, vanno disegnandosi sulla mappa di un terreno memorabile, colmo di gradazioni e grafiche. Dalle ombrelle delle acacie spuntano, e si contano, i colli lenti delle giraffe che non è escluso guardino in su. Dentro la cosa che fa rombo, c’è uno di Romagna con gli strizzoni, non è bello ridirlo ma è così. Io conto i colli delle giraffe e insisto a porgere l’imbuto, a tenere il volantino, a correggerlo, a pompare, vorrei fotografare, scrivere, meditare, ahi e ancora ahi dice la voce del comandante, stiamo puntando ai grandi laghi con le giraffe antidiluviane di sotto, gli occhi strabuzzati di sopra, le carezzevoli e ripetute sinuosità dell’Uganda, di sicuro il posto più bello che abbiamo rigato con un volo a strappi. Al nuovo ahi del comandante si disegnano le mandrie erbivore degli elefanti. Gli elefanti hanno movimenti di massa, un popolo in diaspora cronica, il grigio delle pelli sottostanti è chiazzato di sole, albero dopo albero.
E’ più bello l’elefante libero o la Gioconda al Louvre? Sento insorgere dal di dentro una voce di Adamo, essere qui così, come oggi, contenuti in un piccolo dramma ma liberi di agire in avanti perché il motore canta nitido e le ali reggono. In definitiva, questo sarà il momento da iscrivere a futura memoria e ripassare per il seguito di una vita europea, gl’inverni e le stagioni in dialetto che verranno.
M.L.

mercoledì 26 ottobre 2011

Kilwa

Quando mi sono trovato di fronte, durante la vista della sezione Africana del British Museum, a cocci di ceramica provenienti da Kilwa Kisiwani, in Tanzania, sono rimasto di stucco. Sapevo che Kilwa era un luogo di interesse storico rilevante per la Tanzania, ma non immaginavo che lo fosse a tal punto da dedicargli una teca nel prestigioso museo archeologico londinese. Di fronte a quei pochi e incompleti reperti, ho ripensato a quei giorni di ottobre di tre anni fa durante i quali, insieme ad una coppia di amici, siamo partiti alla scoperta di questa località così importante per la storia dell’Africa orientale e così ignorata dal turismo internazionale.

Dopo aver noleggiato un auto a Dar es Salaam, un piccolo fuoristrada con il cambio automatico assolutamente inadatto all’itinerario che stiamo per affrontare, partiamo all’alba di un sabato di ottobre. La strada che da Dar es Salaam conduce a Kilwa è di per sé un’esperienza che va vissuta ed assaporata con i tempi giusti e senza fretta. Si tratta della strada costiera che conduce fino in Mozambico, percorsa regolarmente da autobus che hanno passato da tempo l’età della rottamazione. Essi impiegano, a causa delle pessime condizioni della strada e dei numerosi villaggi in cui sostano moltissimo tempo per raggiungere Kibiti, Kilwa, Lindi, Mtwara e poi il Mozambico.
Fino a Kibiti,a circa tre ore dalla capitale, la strada è stata asfaltata da poco ed è un lungo rettilineo che fende la vegetazione tropicale, gli imponenti manghi e gli alberi di quello strano frutto che è l’anacardo.
Dopo Kibiti si attraversa il nuovo ponte sul Rufiji, dedicato all’ex presidente Mkapa, il quale permette di evitare il passaggio del fiume a bordo di lente e pericolanti chiatte, che era la norma fino a pochi anni fa.
Dopo il ponte la strada si trasforma in una pista polverosa (se è la stagione secca) o fangosa (se è tempo delle piogge); in entrambi i casi la sua superficie si presenta sconnessa e malandata al punto che in molti tratti si rinuncia allo slalom per evitare le buche e ci si getta rassegnati in questi avvallamenti a spese di ammortizzatori e lombalgie.
In questo tratto (due ore, se non ricordo male), si incontrano di frequente babbuini e altri animali selvatici come i kudu. Non siamo lontani dalla Riserva del Selous e anche gli incontri con i leoni non sono rari. E’ questa infatti la zona dell’Africa dove si registrano i maggiori decessi causati da attacchi di leoni. Consapevoli di questi episodi, ogni sosta per acquistare un casco di banane o per distendere le membra doloranti è vissuta con grande attenzione al paesaggio circostante.
Dopo un lungo tratto di buche, polvere e disagi, improvvisamente il paesaggio si trasforma radicalmente al punto che si ha l’impressione di essersi addormentati e risvegliati in un'altra parte del mondo. La strada diventa asfaltata e addirittura compaiono le righe ai bordi e al centro della carreggiata, fa la sua apparizione una segnaletica stradale incredibilmente dettagliata, avvistiamo i cartelli che riportano i nomi delle cittadine che attraversiamo, le capanne lasciano il posto a case in muratura ed intonacate, la strada è accompagnata da pali della luce e paletti chilometrici.
Ripresi dallo sgomento iniziale tiriamo un sospiro di sollievo per l’improvvisa comodità del viaggio. Pensiamo che un giorno i due tratti asfaltati si congiungeranno, ma fino ad allora si continuerà ad assistere a questo avvicendamento di paesaggi possibile solo in Africa.
La strada comincia a scendere e scorgiamo il mare. Stiamo per arrivare a Kilwa Masoko, il luogo dove ci tratterremo per due notti. Questa località è il punto di partenza per le esplorazioni delle altre due Kilwa, Kivinje e Kisiwani, le due mete di interesse storico e turistico.
Dopo circa sei ore dalla nostra partenza giungiamo a Kilwa Masoko e ci mettiamo subito alla ricerca di una sistemazione per la notte. Purtroppo, il mancato sviluppo del turismo comporta anche una scarsa disponibilità di alloggi per gli occidentali. Di fatto Kilwa è divenuto una meta per turismo di elite, per chi cioè vuole vivere alcuni giorni di oceano indiano lontano da mete frequentate come Zanzibar o Mafia. Passiamo in rassegna infatti due resort, uno dei quali addirittura con aeroplano parcheggiato di fronte, che si rivelano ben presto al di fuori del nostro budget. L’ultima possibilità è quella giusta. E’ il Kilwa Seaview resort, dotato di alloggi confortevoli e suggestivi, una spettacolare sala da pranzo costruita attorno ad un baobab e soprattutto di un listino prezzi alla nostra portata. Una rampa di scale conduce alla spiagge sottostante. Qui il mare è oceano, nel senso che la sua impetuosità non è frenata dalla barriera corallina. Ma l’acqua è trasparente e la spiaggia è deserta. Ci godiamo quindi qualche ora di relax sulla spiaggia fino al momento del tramonto, colorato e romantico come in poche altre occasioni.
L’indomani puntiamo decisi alla meta principale del nostro viaggio, Kilwa Kisiwani. Kisiwani, in Swahili, significa “nell’isola”, e infatti si tratta di un’isola raggiungibile solamente attraversando uno stretto braccio di mare sui dhow dei pescatori che attendono oziosi su quella che una volta doveva essere una banchina di un porto. Per visitare Kilwa Kisiwani occorre pagare una tassa governativa, e come spesso accade in Tanzania non è per nulla facile ottemperare a questa norma. Attendiamo circa un’ora fuori da un ufficio in prossimità del porto in attesa che qualcuno si decida a venire. La nostra attesa è premiata dall’arrivo di un impiegato o presunto tale, il quale ci fa accomodare e ci permette di pagare quanto dovuto. Se si vuole promuovere il turismo, facilitare queste procedure dovrebbe essere il primo passo, ma pensandolo commettiamo il solito errore di chi interpreta l’Africa con la mente di un europeo.
Per quanto lunga è stata l’attesa per l’attivazione del canale ufficiale, per quanto breve è stata la ricerca di un pescatore che ci desse un passaggio fino all’isola. In Africa il rispetto della legge e della burocrazia è sempre più indaginoso dell’incontro della domanda con l’offerta. Saliamo sull’imbarcazione dalla caratteristica vela triangolare e dirigiamo la prua verso Kilwa Kisiwani. Ad attenderci, dove il pescatore attracca il dhow, c’è l’edificio più suggestivo e meglio conservato dell’isola. Si tratta del forte portoghese che veniva usato come prigione nel XVI secolo, che si staglia ancora oggi a controllo dell’approdo più agevole dell’isola.
Dall’XI al al XV secolo, sotto il controllo della dinastia Shirazi di provenienza persiana, Kilwa Kisiwani assurse al ruolo di città più importante dell’Africa orientale e dell’oceano indiano. Essa infatti divenne il fulcro dei traffici commerciali recanti oro e ferro da Gran Zimbabwe, schiavi e avorio dall’Africa continentale, porcellane e spezie dall’Asia.
Di questo periodo sono gli imponenti edifici di Husuni Kubwa, dall’altra parte dell’isola rispetto alla fortezza-prigione, e la Grande Moschea di Kilwa, all’epoca la più grande dell’Africa orientale.
Nel XVI secolo i Shirazi vengono scalzati nel dominio sulle rotte mercantili dell’oceano indiano dai portoghesi di Vasco Da Gama, che però occupano l’isola per nemmeno un decennio, venendo scalzati dalla dominazione araba prima e omanita poi. Il periodo omanita, che coincide con l’ascesa di Zanzibar, sancisce l’inizio del declino di Kilwa che a metà del 1800 viene praticamente abbandonata. Nel 1981 viene dichiarata patrimonio UNESCO al fine di tutelare le sue rovine dall’incuria e dalle intemperie, intento che a giudicare lo stato di conservazione dei vari edifici non sembra del tutto riuscito.
Appena scesi dall’imbarcazione ci dirigiamo a visitare il forte. Veniamo subito agganciati dal piccolo Hassan, un bambino che a prezzo di pochi scellini si offre di farci da guida per raggiungere i vari siti dell’isola. Accettiamo di buon grado, senza paura di incoraggiare il lavoro minorile e l’abbandono scolastico: è domenica, le scuole sono chiuse e nessuno potrebbe vivere con il lavoro di guida turistica su un’isola dimenticata dal turismo.
La scelta di Hassan si è rivelata estremamente azzeccata: è un caldo soffocante è girare senza un guida sarebbe stata garanzia di perderci e di rimediare un’insolazione. Hassan ci guida tra le rovine delle moschee, il palazzo del sultano e di Mkutini. Tutti questi edifici si trovano vicini alla fortezza, per cui è facile raggiungerli. La guida è invece essenziale per raggiungere l’antico palazzo di Husuni Kubwa, dall’altra parte dell’isola. Queste rovine, si dice, rappresentano la più importante testimonianza storica dell’Africa equatoriale di epoca pre-coloniale.
Attraversando l’isola per raggiungere il Husuni Kubwa, si incontrano diversi villaggi. La vita sull’isola deve essere molto dura. Pochissima acqua, terra arida e sabbiosa, clima proibitivo. Chiediamo ad Hassan come fa per la scuola, e lui dice che bisogna attraversare il mare e andare a Kilwa Masoko. Di lavoro sull’isola ovviamente non se ne parla; anche l’agricoltura, il naturale sbocco lavorativo per i tanzaniani che non vivono in città, qui è ridotta ai minimi termini.
E’ molto triste. Le premesse per lo sfruttamento turistico ci sarebbero tutte: mare meraviglioso, natura incontaminata, siti archeologici unici. Un’altra occasione mancata per questo angolo di Africa.
Kilwa 1572
M.L.

lunedì 26 settembre 2011

Wajir 1970

I ragazzi con l’eschimo ed i libri in braccio, tenuti a malapena da un elastico, si incamminano verso scuola ed un’interminabile fila di biciclette accompagna  chi si reca al lavoro.
Ci sono ancora le sirene nelle fabbriche che gridano l’inizio e la fine del lavoro, ma si respira aria di cambiamento.
Ragazzi con i capelli lunghi, l’aria sognante di chi immagina un futuro senza guerre e senza competizione e quelli impegnati che credono nella giustizia sociale, nella rivoluzione culturale, da attuare ora e subito, costi quel che costi.
Ma il mattino è giovane e mentre ritorno a casa incontro Renè bella, giovane, longilinea con lo sguardo in un futuro che stenta a venire, che mi racconta di un posto lontano, in Africa,  dove si soffre la fame ed i bambini muoiono, dove c’è guerra e dove la gente ha bisogno di pane ed acqua.
Mani tese sta organizzando un campo di lavoro, una cinquantina di giovani, provenienti da tutto il mondo, mettono a disposizione il loro tempo e la loro esperienza per realizzare un progetto: un villaggio in cui i giovani che riescano a sopravvivere, possano studiare e mantenersi grazie alla coltivazione di un grande orto.
Bisogna costruire dormitori, portare l’acqua da lontano, fare la scuola, le recinzioni e chissà cosa ancora, ma  forse la strada giusta è quella di aiutare chi ti chiede aiuto, porti solo le domande a cui riesci a rispondere con le tue azioni, solo annegando le mani nella farina e facendo fatica ad impastarla riesci a fare il pane.
Ed il pane che cuoci ha finalmente la fragranza di una vita migliore.
Ci prepariamo, ci conosciamo, siamo pronti al grande viaggio.
Ci troviamo tutti a Roma, destinazione Nairobi.
Clima euforico di chi inizia un’avventura che ti segnerà per sempre
Visita alla Consolata a Nairobi e preparazione della spedizione a Wajir. Domani si parte.
La spedizione è composta da tre jeep della Toyota grandi abbastanza da contenere i materiali e tutti noi.
Ci aspettano al campo gli altri ragazzi che sono già sul posto da alcuni giorni.
Siamo seduti in terra, no ci sono sedili sulle auto e la strada è in terra battuta con grandi buche che ci fanno sobbalzare continuamente.
Ci aspettano tre giorni di cammino.
Si fa una sosta in una trattoria sulla strada…  Ovvero una stanza scavata nella terra dove servono pezzi di carne maleodorante su un tavolo di legno. Niente piatti, niente posate, niente tovaglie, si mangia con le mani.
Il risultato è che appena saliti in macchina, dopo pochi chilometri, tutti vomitano anche l’anima.
Guadiamo un fiume senza ponti e passiamo la notte in una missione.
La sera ci fermiamo a guardare la luna e le stelle. Pare di essere in un altro pianeta. Una luna enorme che illumina a giorno il bush, un cielo che ti rapisce e ti insegna a volare. Animali che ti sussurrano cosa vuol dire essere liberi. Sensazioni nuove che ti inebriano, ti sembra di cominciare solo ora a comprendere il senso della vita. Ci voleva l’Africa per capire che l’uomo non domina la natura ma che la sua vita non ha alcun senso al di fuori di essa.
Si riparte su questo sentiero che non finisce mai con gli animali che corrono a fianco della carovana. Il paesaggio sempre uguale.
Si incontrano sporadici gruppi di indigeni che portano a pascolare le bestie. Chiedono acqua come un mendicante chiede l’elemosina.
Gliene diamo quanto più possiamo.
Ci accampiamo con le tende, ceniamo con i cibi in scatola che ci sembrano leccornie e quando il sole spunta prepotente all’orizzonte, ripartiamo.
Stremati dal viaggio finalmente arriviamo a Wajir
Qualche edificio in muratura, qualche tenda ed il bush che si stende all’infinito.
Pochi indigeni e tanti ragazzi bianchi che popolano questo lembo di terra disperso nell’immensità. Accoglienza festosa, ci assegnano i posti dove dormire e si fa il primo briefing.
Progetto ambizioso: Costruire un villaggio per i ragazzi sopravvissuti, portare l’acqua e irrigare alcuni campi in modo che i ragazzi possano studiare e mantenersi coltivandoli.
Nel raggio di 1000 Km non esiste nessuno dedito all’agricoltura ma sono solo piccole tribù che praticano la pastorizia.
Come fantasmi venuti dal nulla, arrivano da tutte le direzioni, al tramonto, quando il sole diventa rosso e la terra si prepara a riposare nell’oscurità della notte.
Magri, macilenti, non si sa da dove e dove passano il resto della giornata, arrivano e basta.
Si mettono in cerchio intorno al grande albero che troneggia al centro del villaggio, unico essere vivente che sprezzante delle difficoltà umane, ricorda a tutti l’immanenza della vita.
Occhi grandi, mani vuote, non chiedono, ma protestano il diritto alla vita solo con la loro silenziosa presenza.
Donne sole che portano con se piccoli uomini aggrappati alle loro povere vesti.
Anche loro non chiedono, hanno invece qualcosa da vendere: la loro dignità. Anche se allo stremo delle forze, proteggono la giovane vita a loro affidata, prima che la loro stessa vita.
Spesso i bimbi muoiono, ma non ci sono lacrime o disperazione, la morte fa parte della vita, ci viene data e ci viene tolta indipendentemente dalla nostra volontà.
Un fatalismo non cinico ma legato all’eterno ciclo della natura.
Solo così si comprende che la morte non è l’inizio di un’altra vita né la negazione della vita stessa, ma fa parte di un disegno naturale, di un ciclo a cui siamo chiamati ad assoggettarci, con lo spirito di chi si affida a quel mistero che tutto comanda.
Alla fine dominare la natura è una mera illusione dei popoli che si ritengono evoluti. E’ lei la nostra madre, senza di essa si perde il senso e l’essenza della vita stessa.
Le ragazze preparano un pastone in un’enorme pentola poggiata su pietre.
Sotto, il fuoco rosso come il sole, scalda il povero pasto che spesso non riuscirà a saziare.
Aspettano con infinita pazienza che venga distribuito, si presentano con ciotole di latta o barattoli raccattati chissà dove e si ritirano quasi nascondendosi a consumare quel pasto che è per loro speranza di vita.
Poi spariscono così come sono comparsi, nel nulla.
I bambini non si possono toccare, non si può dare loro il benché minimo segno di affetto pena il trovarli il giorno dopo pieni di lividi o addirittura morti. Gli altri bambini li aggrediscono perché non capiscono perché a quello si da affetto ed a loro no. Fa parte della natura umana il senso di giustizia, e non potendo dare a tutti lo stesso affetto, ci si deve rassegnare a non darlo a nessuno.
Si lavora alacremente, per quello che le forze ti consentono, ad una temperatura che nelle ore di punta sfiora i 50 gradi all’ombra
Arrivano spesso i soldati ed ispezionano il campo, vogliono essere sicuri che non ci siano armi e ci trattano male ed a volte ci minacciano. Non capiscono cosa ci facciamo sul loro territorio.
Con un piccolo aereo sgangherato che non vuole mettersi in moto, partiamo alla volta di Nairobi, qualche giorno per i souvenir e poi l’aereo che parte per riportarci a casa.
Stanchi, provati, ma ho avuto molto più di ciò che ho dato, insegnamenti che mi hanno accompagnato per il resto della mia vita.
Ho compreso poche cose:
cos’è la dignità
Il senso del tempo, entità effimera
La morte come valore di vita
la centralità della natura
voler dare vuol dire poter ricevere

Testimonianza scritta da Leandro Calvino, volontario a Wajir nel 1970.