domenica 28 gennaio 2018

Meeting Poors at their Home


Volunteers of Wajir Grannies Centre - DCCG (John, Patrick, Habiba) have remained the only representatives of the Catholic community to visit families in the villages. Once this activity was a practice for the Rehabilitation Centre, which carried out community based rehabilitation for children who could not go to the Centre. Today this does not happen anymore. "Reasons for security" is reported to me by the Camillian sisters. Honestly, I can not blame them.
I accompanied the volunteers to visit the elders registered in the centre (over two hundred) in the villages of Alimaow, Gutut, Jogoo, Hodhan, Wagberi. I understood in person the importance of going to meet the poor at their home. It was essential that I’ve been introduced by the DCCG team. Very few whites are seen in town (in the week I've been there I've never met one) and in the villages nobody ever. I was the first white child that many children met in their life. Somali culture is very diffident and closed towards foreigners: the company of the volunteers of the centre has instead generated joy and welcome and wide-open smiles everywhere. This is the legacy of Sister Teresanna's thirty years of service to the aged. Taking pictures was not a problem and even the access inside the “tucul“ (the small dome-shaped huts of the Somalis) was allowed friendly. I also seated and I was offered Somali tea filled with goat's milk. All this in other circumstances would have been difficult for a foreigner and even impossible for a white man.
The volunteers of the DCCG Centre are the ambassadors of the Christian community in the villages. The Charity that they practice constantly allows all Catholics to be accepted and to live in peace in Wajir.
Many grannies registered at the Centre are unable to walk. It is therefore important to meet relatives or those who come to collect the medicines, foods and other basic necessities that are distributed.
Entering the small enclosures built with low thorny bushes planted on the sand allows us to understand how the grannies family is composed. In general, only women and children are encountered, since men, when they exist, are generally looking for a job or in the bush with dromedaries and zebu. I have found that there is never more than one salary (often occasional) every ten to fifteen people.
The interior of the huts is very poor. Two or three beds are laid out on the sand, often without a mattress. Some objects hang from the branches that make up the supporting skeleton. There are no ornaments - besides there are no furniture - nor decorative objects. The heat is more or less suffocating depending on the roof material of the hut: acceptable if covered with straw mats, unbearable if in plastic sheets or even pieces of sheet metal.
During the visits we met some success stories occurred in the many attempts to offer opportunities to generate income for grannies. Some goats distributed have become small herds, simple business tables transformed into real shops.
Meeting families is also an opportunity to verify a disheartening fact: many children do not attend school. Indeed, it seems that the choice whether to go to school or not is entrusted to the children themselves. A decisive intervention in this sense should be a future development of the Centre's activities.
During the visits to the villages, the aged became the pretext to get to know many aspects of culture, families and Somali society. Looking for grannies you end up meeting two equally vulnerable categories such as children and women. Together they are engaged in the daily struggle for survival and our goal is to help them find dignity and humanity even in such difficult lives.

Incontrando i Poveri a Casa loro

I volontari del Centro per Anziani di Wajir – DCCG (John, Patrick, Habiba) sono rimasti gli unici rappresentanti della comunità cattolica a visitare le famiglie nei villaggi. Un tempo questa attività era una prassi per il Centro di Riabilitazione, che svolgeva riabilitazione su base comunitaria a favore dei bambini che non potevano recarsi al Centro. Oggi ciò non avviene più. “Motivi di sicurezza” mi viene riferito dalle suore camilliane. In tutta sincerità non riesco a biasimarle.
Ho accompagnato i volontari nella visita degli anziani registrati al centro (oltre duecento) nei villaggi di Alimaow, Gutut, Jogoo, Hodhan, Wagberi. Ho compreso di persona l’importanza di andare a incontrare i poveri a casa loro. È stato fondamentale che io mi presentassi insieme all’equipe del DCCG. Si vedono pochissimi bianchi in città (nella settimana in cui ci sono stato non ne ho mai incontrato uno) e nei villaggi mai nessuno. Ero il primo bianco che molti bambini incontravano in vita loro. La cultura somala è molto diffidente e chiusa nei confronti degli stranieri: la compagnia dei volontari del centro invece ha generato gioia ed accoglienza e spalancato ovunque enormi sorrisi. Questa è l’eredità dei trent’anni di servizio agli anziani di Suor Teresanna. Scattare foto non è stato un problema e anche l’accesso all’interno dei tucul (le piccole capanna a forma di cupola dei somali) veniva permesso di buon grado. In diverse circostanze sono stato fatto sedere e mi è stato offerto del tè somalo allungato con latte di capra. Tutto questo in altre circostanze sarebbe stato difficile per uno straniero e addirittura impossibile per un bianco.
I volontari del Centro DCCG sono gli ambasciatori della comunità cristiana nei villaggi. La Carità che praticano costantemente permette a tutti i cattolici di venire accettati e di vivere in pace a Wajir.
Molti anziani registrati al Centro non sono in grado di camminare. È quindi importante incontrare i parenti o i conoscenti che vengono in loro vece a ritirare i medicinali, gli alimenti e gli altri generi di prima necessità che vengono distribuiti.

Entrare nei piccoli recinti costruiti con bassi cespugli spinosi piantati sulla sabbia permette di capire come è composta la famiglia di cui gli anziani beneficiari fanno parte. In genere si incontrano solo donne e bambini, dal momento che gli uomini, quando esistono, sono generalmente in giro alla ricerca di un’occupazione o nel bush con i dromedari e gli zebù. Ho potuto constatare che non è mai disponibile più di uno stipendio (spesso saltuario in realtà) ogni dieci-quindici persone. 
L’interno delle capanne è poverissimo. Sono disposti sulla sabbia due o tre letti, spesso senza materasso. Alcuni oggetti sono appesi ai rami che costituiscono lo scheletro di sostegno. Non esistono soprammobili – del resto non ci sono mobili - né oggetti decorativi. Il caldo è più o meno soffocante a seconda della copertura della capanna: accettabile se coperta con stuoie di paglia, insopportabile se in teli in plastica o addirittura pezzi di lamiera.
Nel corso delle visite abbiamo incontrato alcune storie di successo occorse nei molti tentativi
di offrire opportunità di generare reddito. Alcune capre distribuite sono divenute piccole greggi, semplici tavolini per la vendita di prodotti di uso comune trasformati in veri e propri negozi. 
L’incontro dei nuclei famigliari è l’occasione anche per verificare un dato sconfortante: tantissimi bambini non frequentano la scuola. Sembra anzi che la scelta se andare a scuola o meno sia affidata ai bambini stessi. Un deciso intervento in questo senso dovrebbe essere un futuro sviluppo delle attività del Centro.
L’anziano, nel corso delle visite nei villaggi, è divenuto il pretesto per conoscere tanti aspetti della cultura, delle famiglie, della società somala. Cercando gli anziani si finisce per incontrare due categorie altrettanto vulnerabili come i bambini e le donne. Insieme sono impegnati nella lotta quotidiana per la sopravvivenza ed il nostro obbiettivo è di aiutarli a trovare la dignità e l’umanità anche in esistenze così difficili.
ML

venerdì 26 gennaio 2018

L'Eremo nel Deserto (Ho pregato con un'aquila)

“Vieni nel deserto, Io parlerò al tuo cuore” (Osea [2,16])

“Dio creò il deserto perché gli uomini potessero conoscere la loro anima (proverbio Tuareg)


L’avevo promesso a me stesso: la prossima volta che fossi venuto a Wajir mi sarei concesso un periodo di deserto all’interno dell’eremo che Annalena (lei lo chiamava “eremitaggio”) aveva costruito. Eccomi qua, sulla cima della torre. Il clima è fantastico, imprevedibilmente arieggiato e piacevole, lontano dal riverbero della sabbia incandescente. C’è silenzio, sento solamente i suoni della natura fino a quando i muezzin decidono che è giunta l’ora di richiamare i fedeli alla preghiera. All’esterno delle mura dell’enorme terreno assegnato al Rehab è sorta una città. All’interno c’è


qualche piccolo edificio ma il paesaggio è lo stesso bush selvaggio che vedeva Annalena 43 anni fa, quando costruì l’eremitaggio. Sono sbalordito dalla quantità di uccelli che mi circondano: storni blu, buceri, turachi, colombi, tessitori, ibis, marabù. L’incontro più incredibile è però un nibbio dal becco giallo che mi rimane accanto, appollaiato sulla cima dell’acacia del cortile dell’eremitaggio, per quasi un’ora. Rimane immobile ma attentaofino al momento in cui decolla planando sotto di me. Mi sento un privilegiato e sento il cuore galleggiare. Ho portato con me la raccolta delle lettere di Annalena (Lettere dal Kenya – 1969-1985). Rileggo le parti che riguardano l’eremitaggio, ed ora assumono un significato ed un valore che mi sovrasta e mi commuove…


13 aprile 1970
In Africa o si è contemplativi o si fallisce tutto e chi ci rimette sono sempre loro: i poveri. Qui non c’è nessuno o quasi nessuno in grado o disposto a darti quell’ossigeno spirituale senza il quale
l’anima è in continuo pericolo di asfissia. Per questo costruiremo presto il nostro eremitaggio per la nostra giornata di “deserto” settimanale, per quello più lungo annuale e per offrire silenzio, solitudine, pace a tutti quelli che vorranno venirci, i bianchi naturalmente, perché sono loro ad averne bisogno.

8 febbraio 1975
Naturalmente nell’eremitaggio non metteremo mai né luce né acqua. L’acqua l’attingeremo a mano dal pozzo e la luce dal fondo dell’anima… poi ho comprato del ferro di scarto, meglio del ferro vecchio per farne una specie di pioli incassati in un angolo del muro della cappella per salire fino alla cima della torre. Forse non vi ho ancora spiegato che la cappella dell’eremitaggio l’ho ideata come una torre tutta vuota dentro fino al tetto. Alla sommità intendo lasciare solo quattro colonnine agli angoli e il resto tutto aperto per permettere di spaziare liberamente sull’orizzonte, per cui ho ideato una specie di scaletta incassata nel muro per salire fino in cima alla torre.

10 febbraio 1975
Il pozzo tende verso il centro, gli alberelli vagheggianti, è un sogno un balsamo per il cuore andare
laggiù anche quando il sole è implacabile. Prendimi alla lettera… uno starebbe sempre là. Già il cuore sperimenta una pace, una dolcezza, una serenità insondabili. E’ una condizione di riposo dell’anima, un allentamento dolce, senza scosse, di tensioni radicate nel profondo, uno stato di fiducia senza tremiti, senza bui, senza debolezze, proprio come un bimbo sul seno della sua mamma.

14 ottobre 1975
La gioia di poter dare a un altro, a un pellegrino dell’Assoluto come noi, a tanti e poi tanti che verranno alla ricerca di silenzio, assetati di Dio… la gioia di poter dare, dicevo, di poter offrire il nostro eremitaggio unico al mondo, è talmente “divina” che sarei pronta a costruirne un altro per noi pur di poter costantemente offrire il nostro a chiunque volesse venirci a fare un’esperienza di “deserto”.

5 novembre 1982
Stesa sulla stuoia in cappella nel vuoto alto e austero della torre, contemplavo le meraviglie di Dio… non è possibile che esista un altro luogo al mondo come il nostro eremitaggio. Come ho potuto pensarlo così profondamente mistico, sobrio, austero, gli alberi di spine verdissimi pieni di uccelli da favola, il pozzo della samaritana, l’acqua della vita, il cielo da ogni lato, il muro altissimo che esclude e spalanca su orizzonti infiniti…


23 dicembre 1983
Mi sono persa nell’ascolto del vento, dei canti degli uccelli, delle imposte che sbattono leggermente… mi sono persa nell’incanto delle rose del deserto che mi sorridono brillanti qui appena fuori dalla porta, dalle finestrelle ricamate, di queste mura rosa che sanno di pace e di antico. Tutto amo qui: gli alberi di spine, il pozzo rotondo col ferro ritorto e la carrucola e le parole scritte tanti anni fa e ormai sbiadite: “la mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?”. La torre cava e quei pioli conficcati nel muro con quella salita un po' ardua a significare che non si entra se non per la porta stretta, non si cammina verso Dio, ma ci si inerpica e il respiro deve farsi faticoso e il cuore deve tremare perché Lui è santo e poi perché l’attesa di ogni incontro d’amore fa tremare il cuore.