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lunedì 19 dicembre 2016

Sulle Rotte dei Volontari verso il Grande Sud del Madagascar

Il seguente itinerario prevede il coinvolgimento di VolontariA, Educatori senza Frontiere, Mondo Bimbi, Zanantsika, Averiko.

Si tratta di un viaggio “responsabile” perché ogni viaggiatore contribuisce con una quota ai progetti che visita, vengono privilegiate le strutture gestite da malgasci, si esplora l’incredibile natura del Madagascar attraverso itinerari gestiti dalle comunità locali, si vivono esperienze a stretto contatto con la popolazione e la cultura locale.

Giorno 1:
Arrivo in aeroporto. Procedure per il visto e trasferimento verso l’hotel in città. Cena e pernottamento in caratteristico, pulito e piacevole hotel.

Giorno 2:

Dopo colazione, trasferimento a Fianarantsoa con il famoso taxi-brousse, il veicolo più comunemente usato dai malgasci per muoversi all’interno del loro paese, seguendo la Strada Nazionale 7. Nel corso del viaggio si può ammirare il tipico paesaggio  degli altipiani centrali del Madagascar. Si incontra la località di Behenjy, una cittadina rinomata per la produzione di fois-grois, un lascito della colonizzazione francese. Lungo la strada gli artigiani esibiscono I loro prodotti multicolore.
Si supera Ambatolampy, la cittadina famosa per la lavorazione dell’alluminio riciclato, e poi Antsirabe, una grande ma tranquilla città.  Successivamente compaiono le catene montuose, I campi di riso terrazzati e la famosa foresta di tapia (Upaca spp.) dove i malgasci raccolgono i bozzoli dei bachi da seta utilizzati per la produzione della seta selvatica . Si scorgono macchie di foreste naturali

lunedì 10 dicembre 2012

Ile Sainte Marie

Ile Sainte Marie è un’isola lunga e stretta (quaranta km per appena cinque) situata a breve distanza dalla costa orientale del Madagascar. E’ il tipico paradiso tropicale dell’Oceano Indiano, con spiagge coralline e acque cristalline. Non è un’isola molto conosciuta,essendo  oscurata dalla fama di altre località colonizzate dai villaggi turistici come Nosy Be. Questo è il motivo per cui Ile Saint Marie rimane un luogo genuino e dove è ancora possibile stabilire una relazione autentica con la popolazione locale. Insieme alla sorella minore meridionale, Ile Aux Nattes, presenta altri motivi di interesse che arricchiscono questa esperienza di viaggio rendendola molto più che una semplice vacanza di mare.

Se oggi Ile Sainte Marie è internazionalmente conosciuta solo come meta vacanziera, nel XVII e XVIII secolo veniva identificata in maniera decisamente meno frivola. Ile Sainte Marie era conosciuta da tutti come l’isola dei pirati. Pirati veri, non personaggi di romanzi di appendice.

domenica 14 ottobre 2012

Zanzibar, Anno 1690

Finalmente, di prua, apparve Unguja. Il gruppo comprendeva altre due isole più piccole, Pemba e Latham, ma quando i marinai parlavano di Zanzibar, di solito si riferivano a quell’isola. Era sormontata da una massiccia fortezza, costruita con blocchi di corallo bianco scintillante che splendevano al sole come un iceberg. I bastioni erano fitti di potenti cannoni. [...] Lo specchio d’acqua era congestionato da una massa d’imbarcazioni munite di alberi a prora e a poppa, ancorate in un disordine incredibile. Alcuni dei dhow oceanici erano grandi come la Seraph: appartenevano ai commercianti giunti fin lì dall’India, da Muscat e dal mar Rosso. Non c’era modo tuttavia di capire se fossero pirati: probabilmente lo erano tutti, se si presentava l’occasione. […]

Passando sotto la fortezza, ammainò i suoi colori in omaggio al rappresentante del sultano, poi diede fondo al limite della gittata delle batterie di cannoni. Aveva imparato da tempo a diffidare anche del più caloroso e aperto benvenuto di quello staterello africano.
Non appena furono ancorati, uno sciame di piccole imbarcazioni si fece avanti per salutarli, offrendo merci per alimentare qualunque vizio o esigenza, dalle noci di cocco verdi agli involti di foglie e fiori di bhang, che erano una droga, dai servizi sessuali di schiavetti e schiavette dalla pelle scura agli aculei di porcospino pieni di polvere d’oro. […]

lunedì 9 aprile 2012

Zanzibar, Prigioniera del suo Passato

Zanzibar è un luogo dalle mille sfaccettature che a lungo in passato ha ricoperto un ruolo centrale nella storia. Oggi Zanzibar è conosciuta soprattutto come paradiso delle vacanze, un nome che tutti conoscono solamente perché visto campeggiare sulle vetrine delle agenzie turistiche. Tuttavia oggi, come in passato, essa rappresenta molto di più di questo.
Una doverosa premessa si impone per inquadrare geograficamente Zanzibar: Zanzibar è un arcipelago formato da oltre quaranta isole; le più grandi sono Pemba e Unguja. Quest’ultima è quella che viene universalmente definita come l’isola di Zanzibar. Zanzibar non è più nazione autonoma dal 1964, quando unendosi al Tanganyka entrò a far parte della Repubblica Unita di Tanzania.
Zanzibar è la terra d’origine della lingua Swahili, lingua commerciale nata tra il 1000 ed il 1500 come fusione delle lingue araba, persiana e bantu. Quando si trattò, dopo l’indipendenza della Tanzania, di scegliere il dialetto più adatto per rappresentare la nuova lingua dello stato fu scelto il Kiunguja, cioè lo swahili parlato a Zanzibar.
Il periodo glorioso di Zanzibar inizia nel 1840, quando il sultano dell’Oman Said trasferisce la capitale del proprio regno da Muscat a Zanzibar. Questa decisione fu presa perché l’isola presentava terreni fertili, aveva un buon porto e acqua potabile. Said introdusse la coltivazione dei chiodi di garofano, ed il terreno si dimostrò talmente adatto da permettergli di conquistare il monopolio mondiale di questa coltura.
Said strinse accordi commerciali con americani ed europei e sull’isola vennero a stabilirsi aziende mercantili e corpi diplomatici. In breve tempo Zanzibar divenne anche il principale mercato di schiavi ed avorio di tutta l’Africa orientale. I due commerci erano intimamente collegati perché a provvedere al trasporto dell’avorio erano gli stessi schiavi provenienti dall’Africa centrale. L’isola visse una spettacolare fioritura, diventando una sorta di Singapore del commercio afro-asiatico, abitata da una popolazione mista composta da arabi, africani, indiani ed europei.
In questi anni l’interesse degli europei, in particolare di Inghilterra e Germania, cresce proporzionalmente all’importanza economica dell’arcipelago fino a che, nel 1890, le due potenze si accordano e Zanzibar diventa formalmente protettorato britannico.
Nel 1856, anno di arrivo di Burton e Speke a Zanzibar, iniziano le grandi esplorazioni alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Negli anni successivi arrivarono con lo stesso scopo anche Livingstone e Stanley. Durante il periodo delle grandi esplorazioni dell’Africa centrale e orientale, Zanzibar era la porta del continente, il luogo dove assoldare portatori e acquistare viveri e attrezzature per il lungo e difficile viaggio. Tramontata l’era del commercio delle spezie e trasferita la supremazia commerciale al porto di Dar es Salaam, questo arcipelago perde gradualmente di importanza diventando come oggi si presenta ai turisti, e cioè una terra povera di risorse e vagamente in declino.
Le sue coste rimangono meravigliose, ma tutte le principali attrazioni turistiche si identificano nel ricordo del perduto splendore: dai pochi lembi di foresta primaria rimasta agli edifici omaniti e arabi ormai abbandonati. L’antica capitale Stone Town, che per la sua architettura potrebbe tranquillamente essere una città araba, è patrimonio mondiale dell’umanità UNESCO eppure non sembra che ciò la stia salvando dal degrado.
Lo sfruttamento turistico delle isole, che poteva rappresentare un’occasione di rilancio economico per tutta la popolazione, di fatto si è tradotto in un’epoca di neo-colonialismo, con la costruzione di villaggi turistici di proprietà dei grandi gruppi del settore dove i turisti vengono reclusi e separati dalla gente di Zanzibar. La dimostrazione è che ogni anno arrivano a Zanzibar quasi 150.000 turisti (di cui un terzo italiani), soprattutto nei periodi Luglio-Agosto e Dicembre-Gennaio, eppure, anche nei momenti di massimo afflusso, girando per le stradine di Stone Town se ne vedono pochissimi.
Una settimana all’anno però Zanzibar si sveglia dal suo torpore e diventa nuovamente il centro della cultura africana. E’ la settimana di “Sauti za Busara” (le voci della saggezza), uno dei due principali eventi musicali di tutta l’Africa. In questi giorni è possibile ascoltare la musica taarab zanzibarina, nata dalla commistione di tutte le culture che sono passate da qui nel corso dei secoli.
Considerare Zanzibar come un luogo dove rilassarsi al mare è terribilmente riduttivo; i muri di Stone Town, gli antichi palazzi omaniti, i luoghi dove venivano nascosti gli schiavi dopo l’abolizione della schiavitù e le vecchie farm dove venivano coltivate le spezie per l’esportazione sono luoghi che trasudano storia, prosperità e atrocità, ricchezza e declino.

M.L.

Zanzibar: Prisoner of its Past

Zanzibar is an interesting and complex place that covered a central role in past history. Today Zanzibar is known mainly as vacation’s paradise, that everybody knows for having seen its name on tourist agencies’ shop windows. Nevertheless today, as in the past, Zanzibar represents much more.
Some preliminary remarks must be duly done with the regard to its geography: Zanzibar is an archipelago composed by more than forty islands; the two biggest islands are Pemba and Unguja. This last is the one universally defined as Zanzibar island. Zanzibar isn’t independent nation anymore since 1964, when joining Tanganyka became part of United Republic of Tanzania.
Zanzibar originated Swahili language, commercial language born between 1000 and 1500 a.D. as a melting of arab, persian and bantu cultures. When it was to decide the most suitable dialect to represent the language of the newborn country Kiunguja , Zanzibar’s Swahili, was the one chosen.
The glorious period of Zanzibar began in 1840, when the Oman’s sultan Said moved the capital from Muscat to Zanzibar. He toke this decision because the island was characterized by fertile soils, had a good seaport and clean water available. Said pushed cloves’ cultivation, and the soil was so suitable to that crop to allow Zanzibar to conquer the world monopoly in clove production.
Said established commercial agreements with Americans and Europeans, and diplomatic delegations and trade companies opened offices on the island. In short time Zanzibar became the main market for slave trade and ivory in the whole eastern Africa. These two traffics where closely related, because ivory tusks were transported by slaves during their trip from central Africa.
The island lived a huge growth, becoming a sort of Singapore of afro-asian commerce, inhabited by a mixture of cultures: Arabs, Africans, Indians and Europeans.
During these years the interest of powerful countries, such as Great Britain and Germany, grew proportionally with the rise of Zanzibar’s economical importance until 1890, when the two contenders signed a treaty for the passage of the archipelago under the British crown.
In 1856 arrived in Zanzibar Burton and Speke, and officially started the world run to seek Nile’s springs. In the following years pursued the same purpose, starting from here, Livingstone and Stanley. During the period of the great explorations in eastern and central Africa, Zanzibar was the continent’s gate, the place where to hire porters and buy foodstuffs and equipments for the long and dangerous journey.
Once concluded the age of spices’ trading and transferred the commercial supremacy to Dar es Salaam seaport, these islands lost gradually their importance becoming how tourists can see today: a land with scarce resources and in decline.
Zanzibar’s costs remain marvelous, but all the main tourist attractions preserve the memory of the lost glory, from the few portions of the ancient primary forest to the old deteriorated Arab and Omani buildings currently abandoned.
The ancient capital Stone Town, a city that could be exchanged for an Arab settlement, is an UNESCO world heritage site nevertheless it doesn’t seem this is saving it from the decay.
The touristic exploitation of the archipelago could represent a chance to boost again the economy for all the population, but it has actually inaugurated an epoch of neo-colonialism, with the construction of villages owned by big tourism international companies where tourists are segregated far from the local culture and inhabitants.
The demonstration lies in the fact that every year about 150.000 tourists visit Zanzibar (a third of them are Italians), mainly during high season (December-January and July-August) and walking around Stone Town even during the peaks of the flux you can see very few of them.
However, during a week a year Zanzibar shakes from its torpidity and becomes again the centre for African culture. It’s the week of “Sauti za Busara”, one of the two most important African music festival. In these days is possible to hear the “taarab” music, born in Zanzibar from the fusion of all the cultures passed here across the centuries.
Consider Zanzibar as a place where to relax in the beach in front of a beautiful sea is terribly reductive; the walls of Stone Town, the ancient Omani buildings, the sites where slaves were kept after slavery abolition and the farms where spices were cultivated for international export exude history, prosperity and atrocity, richness and decadence.
M.L.

mercoledì 26 ottobre 2011

Kilwa

Quando mi sono trovato di fronte, durante la vista della sezione Africana del British Museum, a cocci di ceramica provenienti da Kilwa Kisiwani, in Tanzania, sono rimasto di stucco. Sapevo che Kilwa era un luogo di interesse storico rilevante per la Tanzania, ma non immaginavo che lo fosse a tal punto da dedicargli una teca nel prestigioso museo archeologico londinese. Di fronte a quei pochi e incompleti reperti, ho ripensato a quei giorni di ottobre di tre anni fa durante i quali, insieme ad una coppia di amici, siamo partiti alla scoperta di questa località così importante per la storia dell’Africa orientale e così ignorata dal turismo internazionale.

Dopo aver noleggiato un auto a Dar es Salaam, un piccolo fuoristrada con il cambio automatico assolutamente inadatto all’itinerario che stiamo per affrontare, partiamo all’alba di un sabato di ottobre. La strada che da Dar es Salaam conduce a Kilwa è di per sé un’esperienza che va vissuta ed assaporata con i tempi giusti e senza fretta. Si tratta della strada costiera che conduce fino in Mozambico, percorsa regolarmente da autobus che hanno passato da tempo l’età della rottamazione. Essi impiegano, a causa delle pessime condizioni della strada e dei numerosi villaggi in cui sostano moltissimo tempo per raggiungere Kibiti, Kilwa, Lindi, Mtwara e poi il Mozambico.
Fino a Kibiti,a circa tre ore dalla capitale, la strada è stata asfaltata da poco ed è un lungo rettilineo che fende la vegetazione tropicale, gli imponenti manghi e gli alberi di quello strano frutto che è l’anacardo.
Dopo Kibiti si attraversa il nuovo ponte sul Rufiji, dedicato all’ex presidente Mkapa, il quale permette di evitare il passaggio del fiume a bordo di lente e pericolanti chiatte, che era la norma fino a pochi anni fa.
Dopo il ponte la strada si trasforma in una pista polverosa (se è la stagione secca) o fangosa (se è tempo delle piogge); in entrambi i casi la sua superficie si presenta sconnessa e malandata al punto che in molti tratti si rinuncia allo slalom per evitare le buche e ci si getta rassegnati in questi avvallamenti a spese di ammortizzatori e lombalgie.
In questo tratto (due ore, se non ricordo male), si incontrano di frequente babbuini e altri animali selvatici come i kudu. Non siamo lontani dalla Riserva del Selous e anche gli incontri con i leoni non sono rari. E’ questa infatti la zona dell’Africa dove si registrano i maggiori decessi causati da attacchi di leoni. Consapevoli di questi episodi, ogni sosta per acquistare un casco di banane o per distendere le membra doloranti è vissuta con grande attenzione al paesaggio circostante.
Dopo un lungo tratto di buche, polvere e disagi, improvvisamente il paesaggio si trasforma radicalmente al punto che si ha l’impressione di essersi addormentati e risvegliati in un'altra parte del mondo. La strada diventa asfaltata e addirittura compaiono le righe ai bordi e al centro della carreggiata, fa la sua apparizione una segnaletica stradale incredibilmente dettagliata, avvistiamo i cartelli che riportano i nomi delle cittadine che attraversiamo, le capanne lasciano il posto a case in muratura ed intonacate, la strada è accompagnata da pali della luce e paletti chilometrici.
Ripresi dallo sgomento iniziale tiriamo un sospiro di sollievo per l’improvvisa comodità del viaggio. Pensiamo che un giorno i due tratti asfaltati si congiungeranno, ma fino ad allora si continuerà ad assistere a questo avvicendamento di paesaggi possibile solo in Africa.
La strada comincia a scendere e scorgiamo il mare. Stiamo per arrivare a Kilwa Masoko, il luogo dove ci tratterremo per due notti. Questa località è il punto di partenza per le esplorazioni delle altre due Kilwa, Kivinje e Kisiwani, le due mete di interesse storico e turistico.
Dopo circa sei ore dalla nostra partenza giungiamo a Kilwa Masoko e ci mettiamo subito alla ricerca di una sistemazione per la notte. Purtroppo, il mancato sviluppo del turismo comporta anche una scarsa disponibilità di alloggi per gli occidentali. Di fatto Kilwa è divenuto una meta per turismo di elite, per chi cioè vuole vivere alcuni giorni di oceano indiano lontano da mete frequentate come Zanzibar o Mafia. Passiamo in rassegna infatti due resort, uno dei quali addirittura con aeroplano parcheggiato di fronte, che si rivelano ben presto al di fuori del nostro budget. L’ultima possibilità è quella giusta. E’ il Kilwa Seaview resort, dotato di alloggi confortevoli e suggestivi, una spettacolare sala da pranzo costruita attorno ad un baobab e soprattutto di un listino prezzi alla nostra portata. Una rampa di scale conduce alla spiagge sottostante. Qui il mare è oceano, nel senso che la sua impetuosità non è frenata dalla barriera corallina. Ma l’acqua è trasparente e la spiaggia è deserta. Ci godiamo quindi qualche ora di relax sulla spiaggia fino al momento del tramonto, colorato e romantico come in poche altre occasioni.
L’indomani puntiamo decisi alla meta principale del nostro viaggio, Kilwa Kisiwani. Kisiwani, in Swahili, significa “nell’isola”, e infatti si tratta di un’isola raggiungibile solamente attraversando uno stretto braccio di mare sui dhow dei pescatori che attendono oziosi su quella che una volta doveva essere una banchina di un porto. Per visitare Kilwa Kisiwani occorre pagare una tassa governativa, e come spesso accade in Tanzania non è per nulla facile ottemperare a questa norma. Attendiamo circa un’ora fuori da un ufficio in prossimità del porto in attesa che qualcuno si decida a venire. La nostra attesa è premiata dall’arrivo di un impiegato o presunto tale, il quale ci fa accomodare e ci permette di pagare quanto dovuto. Se si vuole promuovere il turismo, facilitare queste procedure dovrebbe essere il primo passo, ma pensandolo commettiamo il solito errore di chi interpreta l’Africa con la mente di un europeo.
Per quanto lunga è stata l’attesa per l’attivazione del canale ufficiale, per quanto breve è stata la ricerca di un pescatore che ci desse un passaggio fino all’isola. In Africa il rispetto della legge e della burocrazia è sempre più indaginoso dell’incontro della domanda con l’offerta. Saliamo sull’imbarcazione dalla caratteristica vela triangolare e dirigiamo la prua verso Kilwa Kisiwani. Ad attenderci, dove il pescatore attracca il dhow, c’è l’edificio più suggestivo e meglio conservato dell’isola. Si tratta del forte portoghese che veniva usato come prigione nel XVI secolo, che si staglia ancora oggi a controllo dell’approdo più agevole dell’isola.
Dall’XI al al XV secolo, sotto il controllo della dinastia Shirazi di provenienza persiana, Kilwa Kisiwani assurse al ruolo di città più importante dell’Africa orientale e dell’oceano indiano. Essa infatti divenne il fulcro dei traffici commerciali recanti oro e ferro da Gran Zimbabwe, schiavi e avorio dall’Africa continentale, porcellane e spezie dall’Asia.
Di questo periodo sono gli imponenti edifici di Husuni Kubwa, dall’altra parte dell’isola rispetto alla fortezza-prigione, e la Grande Moschea di Kilwa, all’epoca la più grande dell’Africa orientale.
Nel XVI secolo i Shirazi vengono scalzati nel dominio sulle rotte mercantili dell’oceano indiano dai portoghesi di Vasco Da Gama, che però occupano l’isola per nemmeno un decennio, venendo scalzati dalla dominazione araba prima e omanita poi. Il periodo omanita, che coincide con l’ascesa di Zanzibar, sancisce l’inizio del declino di Kilwa che a metà del 1800 viene praticamente abbandonata. Nel 1981 viene dichiarata patrimonio UNESCO al fine di tutelare le sue rovine dall’incuria e dalle intemperie, intento che a giudicare lo stato di conservazione dei vari edifici non sembra del tutto riuscito.
Appena scesi dall’imbarcazione ci dirigiamo a visitare il forte. Veniamo subito agganciati dal piccolo Hassan, un bambino che a prezzo di pochi scellini si offre di farci da guida per raggiungere i vari siti dell’isola. Accettiamo di buon grado, senza paura di incoraggiare il lavoro minorile e l’abbandono scolastico: è domenica, le scuole sono chiuse e nessuno potrebbe vivere con il lavoro di guida turistica su un’isola dimenticata dal turismo.
La scelta di Hassan si è rivelata estremamente azzeccata: è un caldo soffocante è girare senza un guida sarebbe stata garanzia di perderci e di rimediare un’insolazione. Hassan ci guida tra le rovine delle moschee, il palazzo del sultano e di Mkutini. Tutti questi edifici si trovano vicini alla fortezza, per cui è facile raggiungerli. La guida è invece essenziale per raggiungere l’antico palazzo di Husuni Kubwa, dall’altra parte dell’isola. Queste rovine, si dice, rappresentano la più importante testimonianza storica dell’Africa equatoriale di epoca pre-coloniale.
Attraversando l’isola per raggiungere il Husuni Kubwa, si incontrano diversi villaggi. La vita sull’isola deve essere molto dura. Pochissima acqua, terra arida e sabbiosa, clima proibitivo. Chiediamo ad Hassan come fa per la scuola, e lui dice che bisogna attraversare il mare e andare a Kilwa Masoko. Di lavoro sull’isola ovviamente non se ne parla; anche l’agricoltura, il naturale sbocco lavorativo per i tanzaniani che non vivono in città, qui è ridotta ai minimi termini.
E’ molto triste. Le premesse per lo sfruttamento turistico ci sarebbero tutte: mare meraviglioso, natura incontaminata, siti archeologici unici. Un’altra occasione mancata per questo angolo di Africa.
Kilwa 1572
M.L.

domenica 16 maggio 2010

L'Isola di Mbudya

Se per un caso remoto doveste trovarvi nella città di Dar es Salaam con un giorno a disposizione e non sapeste a che santo votarvi, la mossa che mi sento di raccomandarvi è la visita all’isola di Mbudya.
Mbudya è una piccola isola che si trova al largo della capitale della Tanzania, ad un distanza in linea d’aria di due chilometri. Essa fa parte del Parco Marino di Dar Es Salaam insieme alle isole di Bongoyo, Pangavini e Fungu Yasini. Mentre Pangavini e Fungu Yasini sono inaccessibili ai turisti e riservate alla fauna ed alla flora che le abitano, Bongoyo e Mbudya sono agevolmente visitabili in giornata.
In particolare alcuni resort sulle spiagge a nord di Dar (Jangwani Sea Breeze e White Sands) mettono a disposizione dei turisti delle barchette a motore per raggiungere Mbudya ad un prezzo molto contenuto (attualmente circa cinque euro a passeggero per un minimo di quattro passeggeri per i viaggi di andata e ritorno). Il viaggio dura circa venti minuti. Una volta giunti sull’isola non resta che rilassarsi sulla spiaggia bianca e godersi qualche ora di sole ed un bagno nelle acque cristalline che circondano l’isola. Ciò che veramente rende unico questo luogo è l’assoluta vicinanza alla capitale di uno stato, che è l’ultimo posto al mondo in cui ci si aspetterebbe di trovare un paradiso naturalistico tropicale.

La classica ciliegina sulla torta è il pranzo. Alcuni simpatici tanzaniani cucinano il pesce pescato qualche minuto prima e lo servono sotto sgarrupati ma caratteristici banda in makuti (termine tecnico per gazebo in legno e paglia). Il menu è pressoché unico, e cioè pesce alla griglia e patatine, rigorosamente da consumare senza posate e bevendo soda fresca. Per chi l’ha provato, un pasto a Mbudya rappresenta uno dei massimi picchi di godimento vissuti nel corso di una esistenza intera.
Le basse acque intorno all’isola nascondono alcune porzioni della vecchia barriera corallina salvatesi alla pesca con dinamite. E’ consigliato quindi noleggiare l’attrezzatura da snorkeling per cercare questi scogli corallini, dove si possono fare alcuni incontri davvero emozionanti con la vita sottomarina.
Un ulteriore motivo di interesse di quest’isola è la possibilità di avvistare il Granchio Ladro di Cocchi, un enorme paguro terrestre capace di arrampicarsi sulle palme e di rompere con le forti chele le giovani noci di cocco. E’ un animale sensazionale, gravemente minacciato di estinzione.
Mbudya è poco frequentata dai turisti “tutto compreso” che affollano Zanzibar e i parchi del nord, mentre rappresenta l’immancabile punto d’incontro domenicale per tutti gli espatriati che vivono la capitale tanzaniana. Diplomatici, missionari, volontari delle ong, commercianti e imprenditori convergono su questo fazzoletto di paradiso per godersi una giornata di pace lontano dallo smog e dal traffico di Dar. A parte la domenica, in cui si possono incontrare altre persone, durante la settimana Mbudya è deserta.
Purtroppo anche Mbudya può avere qualche controindicazione.
Alcuni mesi, soprattutto da Aprile e Giugno, le correnti spingono verso la spiaggia di Mbudya la spazzatura che si accumula sul litorale della capitale e può capitare di trovare sporche alcuni punti della spiaggia. Il momento migliore per recarsi a Mbudya è sicuramente da Dicembre a Febbraio, quando le acque sono calme e trasparenti e la spiaggia è sgombra di alghe.
Ultimamente viene richiesto con insistenza il pagamento dell’ingresso al parco (16.000 scellini, circa 8 euro). Tra noleggio barca, biglietto d'ingresso al parco marino e pasto si va a spendere circa 20 euro, e una cifra del genere vale sicuramente una giornata come solo Mbudya sa dare.
All’orizzonte si staglia la costa di Dar. Niente di male, se non fosse che un enorme cementificio è stato costruito proprio davanti Mbudya, rovinando parzialmente il panorama: bisogna tenerne conto poi mentre si scattano le foto! La brezza fresca attenua di molto il caldo, e diversi sprovveduti hanno ritenuto di risparmiare la crema solare. Il sole in queste regioni picchia di brutto e molti visitatori sono tornati da Mbudya con scottature colossali!

M.L.

lunedì 4 febbraio 2008

Pensieri Malgasci

Durante le sei settimane in cui ho girato per il Madagascar e sono stato ospite della missione di Tsiroanomandidy, ho scritto un diario di viaggio. Seguono alcuni brevi episodi ed estratti recuperati tra le numerose pagine che sono scaturite.


Questo è il pianeta Africa, prendere o lasciare. Non esistono compromessi : fame, povertà, allegria, meraviglie della natura e milioni di volti segnati da vite durissime. Ho ritrovato questa gente come l’ho lasciata: un popolo in cammino… lento e stentato, ma in cammino. E questa volta sono in strada anch’io!

Balene! Anzi, megattere! Finalmente il sogno si realizza. I maschi oggi erano in gran forma, e non hanno lesinato salti e acrobazie incredibili per animali di oltre trenta tonnellate. Le femmine, compassate e civettuole, li seguivano senza mostrare troppi entusiasmi. Quello spettacolo di cetacei mi ha divertito al pensiero che, in fondo, non si tratta altro che dello stesso comportamento che nei millenni i maschi di tutte le specie animali hanno selezionato nella fase che precede l’accoppiamento… specie umana compresa! Chiamasi esibizionismo.


Questa mattina, essendo brutto tempo, mi sono recato sulla spiaggia a raccogliere conchiglie. Si sono unite a me, spontaneamente, tre bambine malgasce incuriosite da quello strano “vazaha” (straniero) intento a raccogliere qualcosa per loro senza valore e comune quanto la frutta sugli alberi. Subito è iniziato un nuovo gioco, ovvero porgere al tizio bianco conchiglie sperando che le accettasse e le riponesse nella noce di cocco porta-oggetti. Ad un certo punto ci siamo trovati lungo un tratto di battigia dove le onde erano forti, l’acqua alta e a fatica si riusciva a rimanere in piedi. La più piccola si è messa a piangere non riuscendo a proseguire oltre. Mosso a compassione l’ho presa in braccio e lei, sentendosi finalmente al sicuro, ha smesso di piangere. Un pensiero che subito mi è saltato alla mente è che sarebbe bello con la stessa facilità di quel gesto risolvere alcuni dei terribili problemi che affliggono il Madagascar […].
A questo episodio ho pensato anche in seguito. E la conclusione è che offrire il proprio contributo in realtà è veramente facile come prendere una bambina in braccio. Due soli esempi: per mandare a scuola 250 bambini per un mese sono “sufficienti” 30 euro; per completare la costruzione dell’unica scuola di un villaggio mancano “solo” i 70 euro necessari alla realizzazione del tetto. Eppure, quei 250 bambini e quel villaggio rimarranno senza scuola, perché quei soldi non ci sono.


Mi trovo in piena notte presso un distributore di benzina, piegato sotto il peso del mio zaino, fermo su un marciapiede intento a scrivere il diario quotidiano, in attesa di un fantomatico mezzo di trasporto di passaggio che, tra parentesi, ho già pagato. La mia situazione è di per sé assurda, soprattutto perché si basa su una sconsiderata fiducia verso africani che nemmeno conosco. Ma la situazione diventa improvvisamente interessante e divertente. Il luogo dove sono è un vero e proprio crocevia di auto, autobus, bambini che vendono ciambelle fritte e frutta colorata riposta su vassoi di legno adagiati sulla testa, una vera e propria folla di vagabondi che bighellona senza uno scopo preciso. Superato l’iniziale momento in cui tutti mi vedevano come un potenziale acquirente delle cose più impensabili, le relazioni si sono evolute in una direzione imprevista. Tutti a turno si sono avvicinati chiedendo chi fossi, che ci facessi lì, dove fossi diretto. L’attesa è durata oltre due ore, è quindi facile immaginare quante persone io abbia potuto conoscere! Le persone più anziane hanno cominciato a disquisire e scommettere tra loro se fossi riuscito o meno a prendere il mio trasporto, i bambini delle ciambelle di loro iniziativa si sono prodigati a chiedere a tutti i bus di passaggio dove fossero diretti e se ci fosse una prenotazione di un bianco, alcune ragazzette si sono proposte in sposa, i venditori più creativi hanno cercato nuovi articoli, ancor più surreali, che mi potessero interessare… Ero una vera e propria celebrità!
Per completezza di cronaca: dopo due ore e mezza di attesa è arrivato il mio passaggio, carico di enormi bagagli, un divano ed una motocicletta.


Sono arrivato alla missione e del mio contatto (Goffredo) nemmeno l’ombra. Tra l’altro mi sarebbe piaciuto trovarlo, perché ci sono arrivato accompagnato su una moto da trial da un tizio della città che andava nella stessa direzione, e il vedermi arrivare in quel modo sarebbe risultato certo spettacolare. In questo modo però ho avuto l’occasione di inserirmi magnificamente, facendo salti mortali con il mio francese e imparando le parole chiavi malgasce. Ad esempio oggi sono stato con una micro - suorina malgascia più larga che alta in un villaggio chiamato Miandrarivo, che nella lingua locale credo significhi “villaggio alla fine del mondo”, perché per arrivarci abbiamo dovuto seguire una lunga e impraticabile pista polverosa, e le case si trovano letteralmente disperse in mezzo al nulla, senza corrente elettrica né acqua potabile. Ero il secondo bianco che varcava le soglie di quel villaggio, e molti dei bambini (che avevano mancato per la giovane età il bianco precedente) non mi hanno staccato gli occhi di dosso per tutto il tempo.


Questa la devo scrivere: c’è una donna a Tsiroanomandidy che da 8 anni attende in prigione di essere processata per un furto di banane. Una vita distrutta a causa del fatto che qua il sistema giudiziario è sommario e inefficace.
Questo paese è strano. L’apparenza è quella di un luogo dove sembra impossibile poter vivere male: pieno di risorse, posti meravigliosi, dove la natura distribuisce generosa i suoi frutti. Invece la società è poverissima: non esiste sanità pubblica, scuole decenti, giustizia, le malattie sono molto diffuse, le vie di comunicazione sono in condizioni agghiaccianti. Mi ero convinto dai viaggi precedenti che in Africa si dovessero considerare due livelli: quello superficiale, dell’apparenza, in cui questi paesi mostrano il peggio di sé e suscitano il rigetto da parte di noi “ricchi”. Il livello più profondo invece è quello della gente, delle relazioni umane, della natura più incredibile del mondo, della musica, delle danze e dell’allegria perpetua. Qui forse le sono più complesse, ed è difficile demarcare un limite netto tra dolore e gioia, meraviglia e disgusto.
(Testo scritto nel Luglio 2005)
M.L.