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mercoledì 26 ottobre 2011

Kilwa

Quando mi sono trovato di fronte, durante la vista della sezione Africana del British Museum, a cocci di ceramica provenienti da Kilwa Kisiwani, in Tanzania, sono rimasto di stucco. Sapevo che Kilwa era un luogo di interesse storico rilevante per la Tanzania, ma non immaginavo che lo fosse a tal punto da dedicargli una teca nel prestigioso museo archeologico londinese. Di fronte a quei pochi e incompleti reperti, ho ripensato a quei giorni di ottobre di tre anni fa durante i quali, insieme ad una coppia di amici, siamo partiti alla scoperta di questa località così importante per la storia dell’Africa orientale e così ignorata dal turismo internazionale.

Dopo aver noleggiato un auto a Dar es Salaam, un piccolo fuoristrada con il cambio automatico assolutamente inadatto all’itinerario che stiamo per affrontare, partiamo all’alba di un sabato di ottobre. La strada che da Dar es Salaam conduce a Kilwa è di per sé un’esperienza che va vissuta ed assaporata con i tempi giusti e senza fretta. Si tratta della strada costiera che conduce fino in Mozambico, percorsa regolarmente da autobus che hanno passato da tempo l’età della rottamazione. Essi impiegano, a causa delle pessime condizioni della strada e dei numerosi villaggi in cui sostano moltissimo tempo per raggiungere Kibiti, Kilwa, Lindi, Mtwara e poi il Mozambico.
Fino a Kibiti,a circa tre ore dalla capitale, la strada è stata asfaltata da poco ed è un lungo rettilineo che fende la vegetazione tropicale, gli imponenti manghi e gli alberi di quello strano frutto che è l’anacardo.
Dopo Kibiti si attraversa il nuovo ponte sul Rufiji, dedicato all’ex presidente Mkapa, il quale permette di evitare il passaggio del fiume a bordo di lente e pericolanti chiatte, che era la norma fino a pochi anni fa.
Dopo il ponte la strada si trasforma in una pista polverosa (se è la stagione secca) o fangosa (se è tempo delle piogge); in entrambi i casi la sua superficie si presenta sconnessa e malandata al punto che in molti tratti si rinuncia allo slalom per evitare le buche e ci si getta rassegnati in questi avvallamenti a spese di ammortizzatori e lombalgie.
In questo tratto (due ore, se non ricordo male), si incontrano di frequente babbuini e altri animali selvatici come i kudu. Non siamo lontani dalla Riserva del Selous e anche gli incontri con i leoni non sono rari. E’ questa infatti la zona dell’Africa dove si registrano i maggiori decessi causati da attacchi di leoni. Consapevoli di questi episodi, ogni sosta per acquistare un casco di banane o per distendere le membra doloranti è vissuta con grande attenzione al paesaggio circostante.
Dopo un lungo tratto di buche, polvere e disagi, improvvisamente il paesaggio si trasforma radicalmente al punto che si ha l’impressione di essersi addormentati e risvegliati in un'altra parte del mondo. La strada diventa asfaltata e addirittura compaiono le righe ai bordi e al centro della carreggiata, fa la sua apparizione una segnaletica stradale incredibilmente dettagliata, avvistiamo i cartelli che riportano i nomi delle cittadine che attraversiamo, le capanne lasciano il posto a case in muratura ed intonacate, la strada è accompagnata da pali della luce e paletti chilometrici.
Ripresi dallo sgomento iniziale tiriamo un sospiro di sollievo per l’improvvisa comodità del viaggio. Pensiamo che un giorno i due tratti asfaltati si congiungeranno, ma fino ad allora si continuerà ad assistere a questo avvicendamento di paesaggi possibile solo in Africa.
La strada comincia a scendere e scorgiamo il mare. Stiamo per arrivare a Kilwa Masoko, il luogo dove ci tratterremo per due notti. Questa località è il punto di partenza per le esplorazioni delle altre due Kilwa, Kivinje e Kisiwani, le due mete di interesse storico e turistico.
Dopo circa sei ore dalla nostra partenza giungiamo a Kilwa Masoko e ci mettiamo subito alla ricerca di una sistemazione per la notte. Purtroppo, il mancato sviluppo del turismo comporta anche una scarsa disponibilità di alloggi per gli occidentali. Di fatto Kilwa è divenuto una meta per turismo di elite, per chi cioè vuole vivere alcuni giorni di oceano indiano lontano da mete frequentate come Zanzibar o Mafia. Passiamo in rassegna infatti due resort, uno dei quali addirittura con aeroplano parcheggiato di fronte, che si rivelano ben presto al di fuori del nostro budget. L’ultima possibilità è quella giusta. E’ il Kilwa Seaview resort, dotato di alloggi confortevoli e suggestivi, una spettacolare sala da pranzo costruita attorno ad un baobab e soprattutto di un listino prezzi alla nostra portata. Una rampa di scale conduce alla spiagge sottostante. Qui il mare è oceano, nel senso che la sua impetuosità non è frenata dalla barriera corallina. Ma l’acqua è trasparente e la spiaggia è deserta. Ci godiamo quindi qualche ora di relax sulla spiaggia fino al momento del tramonto, colorato e romantico come in poche altre occasioni.
L’indomani puntiamo decisi alla meta principale del nostro viaggio, Kilwa Kisiwani. Kisiwani, in Swahili, significa “nell’isola”, e infatti si tratta di un’isola raggiungibile solamente attraversando uno stretto braccio di mare sui dhow dei pescatori che attendono oziosi su quella che una volta doveva essere una banchina di un porto. Per visitare Kilwa Kisiwani occorre pagare una tassa governativa, e come spesso accade in Tanzania non è per nulla facile ottemperare a questa norma. Attendiamo circa un’ora fuori da un ufficio in prossimità del porto in attesa che qualcuno si decida a venire. La nostra attesa è premiata dall’arrivo di un impiegato o presunto tale, il quale ci fa accomodare e ci permette di pagare quanto dovuto. Se si vuole promuovere il turismo, facilitare queste procedure dovrebbe essere il primo passo, ma pensandolo commettiamo il solito errore di chi interpreta l’Africa con la mente di un europeo.
Per quanto lunga è stata l’attesa per l’attivazione del canale ufficiale, per quanto breve è stata la ricerca di un pescatore che ci desse un passaggio fino all’isola. In Africa il rispetto della legge e della burocrazia è sempre più indaginoso dell’incontro della domanda con l’offerta. Saliamo sull’imbarcazione dalla caratteristica vela triangolare e dirigiamo la prua verso Kilwa Kisiwani. Ad attenderci, dove il pescatore attracca il dhow, c’è l’edificio più suggestivo e meglio conservato dell’isola. Si tratta del forte portoghese che veniva usato come prigione nel XVI secolo, che si staglia ancora oggi a controllo dell’approdo più agevole dell’isola.
Dall’XI al al XV secolo, sotto il controllo della dinastia Shirazi di provenienza persiana, Kilwa Kisiwani assurse al ruolo di città più importante dell’Africa orientale e dell’oceano indiano. Essa infatti divenne il fulcro dei traffici commerciali recanti oro e ferro da Gran Zimbabwe, schiavi e avorio dall’Africa continentale, porcellane e spezie dall’Asia.
Di questo periodo sono gli imponenti edifici di Husuni Kubwa, dall’altra parte dell’isola rispetto alla fortezza-prigione, e la Grande Moschea di Kilwa, all’epoca la più grande dell’Africa orientale.
Nel XVI secolo i Shirazi vengono scalzati nel dominio sulle rotte mercantili dell’oceano indiano dai portoghesi di Vasco Da Gama, che però occupano l’isola per nemmeno un decennio, venendo scalzati dalla dominazione araba prima e omanita poi. Il periodo omanita, che coincide con l’ascesa di Zanzibar, sancisce l’inizio del declino di Kilwa che a metà del 1800 viene praticamente abbandonata. Nel 1981 viene dichiarata patrimonio UNESCO al fine di tutelare le sue rovine dall’incuria e dalle intemperie, intento che a giudicare lo stato di conservazione dei vari edifici non sembra del tutto riuscito.
Appena scesi dall’imbarcazione ci dirigiamo a visitare il forte. Veniamo subito agganciati dal piccolo Hassan, un bambino che a prezzo di pochi scellini si offre di farci da guida per raggiungere i vari siti dell’isola. Accettiamo di buon grado, senza paura di incoraggiare il lavoro minorile e l’abbandono scolastico: è domenica, le scuole sono chiuse e nessuno potrebbe vivere con il lavoro di guida turistica su un’isola dimenticata dal turismo.
La scelta di Hassan si è rivelata estremamente azzeccata: è un caldo soffocante è girare senza un guida sarebbe stata garanzia di perderci e di rimediare un’insolazione. Hassan ci guida tra le rovine delle moschee, il palazzo del sultano e di Mkutini. Tutti questi edifici si trovano vicini alla fortezza, per cui è facile raggiungerli. La guida è invece essenziale per raggiungere l’antico palazzo di Husuni Kubwa, dall’altra parte dell’isola. Queste rovine, si dice, rappresentano la più importante testimonianza storica dell’Africa equatoriale di epoca pre-coloniale.
Attraversando l’isola per raggiungere il Husuni Kubwa, si incontrano diversi villaggi. La vita sull’isola deve essere molto dura. Pochissima acqua, terra arida e sabbiosa, clima proibitivo. Chiediamo ad Hassan come fa per la scuola, e lui dice che bisogna attraversare il mare e andare a Kilwa Masoko. Di lavoro sull’isola ovviamente non se ne parla; anche l’agricoltura, il naturale sbocco lavorativo per i tanzaniani che non vivono in città, qui è ridotta ai minimi termini.
E’ molto triste. Le premesse per lo sfruttamento turistico ci sarebbero tutte: mare meraviglioso, natura incontaminata, siti archeologici unici. Un’altra occasione mancata per questo angolo di Africa.
Kilwa 1572
M.L.

sabato 23 luglio 2011

British Museum

Il British Museum è il più importante museo archeologico del mondo e custodisce reperti appartenenti alla storia dell’umanità degli ultimi 5.000 anni. Sono conservati oltre 14 milioni di reperti, di cui “solamente” 70.000 circa sono esibiti nei suoi 20 km di gallerie. Molti di questi oggetti sono stati sottratti con l’inganno o con la forza ai paesi legittimi proprietari nel corso dell’espansione dell’impero coloniale britannico e del Commonwealth. Tuttavia in questo modo questi tesori sono stati consegnati all’eternità e resi accessibili al grande pubblico. In qualche misura ciò riscatta i misfatti del passato. Non è possibile stilare un classifica di oggetti per ordine di importanza, semplicemente perché tutti gli oggetti del British Museum sono stati di eccezionale importanza per i popoli e per le culture che li hanno prodotti. Per cui riporto alcuni dei reperti che più mi hanno colpito e incuriosito, senza pretese né presunzioni di alcun tipo. Nella mia galleria personale di immagini mancano totalmente oggetti dell’estremo oriente (es. India, Giappone, Cina, ecc), perché nei due giorni che abbiamo dedicato alla visita di questo luogo incredibile non siamo riusciti nemmeno a passare per le relative sale espositive. Placca del Benin, XIV-XV sec. Sono state ritrovate circa 1.000 placche come questa, e si trovano attualmente sparse tra i più grandi musei del mondo. Originariamente esse decoravano le colonne del palazzo dell’Oba, il re di Benin e Nigeria. Queste placche sono state realizzate fondendo monili e braccialetti che venivano consegnati dai portoghesi in cambio di avorio, spezie e schiavi. Nella placca sono rappresentati l’Oba (figura centrale), due dignitari e due commercianti portoghesi (in piccolo ai lati della testa del re). Testa di Luzira, Uganda, IX-X sec. Questa figura in terracotta è stata scoperta nel 1929 da alcuni detenuti del carcere di Luzira che erano impegnati in lavori di scavo. Questo oggetto è di enorme importanza perché insieme alle teste di Lydenburgh (Sud Africa) rappresenta l’unica testimonianza nota di arte pre-coloniale dell’Africa Meridionale e Orientale. Statuette Inuit, realizzate in avorio di tricheco. Oggetti contemporanei. Elemento di architrave in calcare, Messico, 600-900 d.C. Questo oggetto, considerato uno dei capolavori dell’arte Maya, si trovava insieme ad altri due pannelli analoghi sopra le porte di una delle strutture del sito di Yaxchilàn, in Chiapas. Il pannello mostra il re Uccello Giaguaro IV che tiene in mano una lancia e sovrasta un prigioniero in ginocchio Serpente di fuoco, Messico, 1.300-1.521 d.C. Il serpente di fuoco, Xiuhcoatl, secondo la mitologia azteca era l’arma fiammeggiante di Huitzilopochtli, il dio della guerra e del sole. Serpente a due teste, Messico, 1.400-1.521 d.C. Il serpente a due teste è un tema ricorrente nelle culture mesoamericane. Il termine Coatl, contenuto nel nome di molte divinità, significa infatti sia “serpente” che “doppio”. Quest’oggetto in legno rivestito di turchesi faceva originariamente parte probabilmente di ornamenti indossati durante cerimonie rituali ed è stato realizzato dagli artisti aztechi per la corte reale. Stele di Rosetta, Egitto, 196 a.C. La Stele di Rosetta è forse il reperto più celebre custodito al British Museum. Si tratta di una lastra di basalto di 760 Kg che riporta lo stesso testo in geroglifico, demodico (il demodico era la grafia del popolo mentre il geroglifico veniva usato solo dagli scribi ed era considerato la grafia degli dèi) e greco. Il testo riporta tutti i benefici portati al paese dal re Tolomeo V Epifane. La stele, scoperta nel 1822, ha permesso la decifrazione dei geroglifici - fino ad allora scrittura incomprensibile – grazie alla presenza della traduzione in greco. Scatola dipinta appartenente al sacerdote di Amun Amenhotep contenente Shabti in ceramica, Tebe, 21a Dinastia 1.070-945 a.C. Gli Shabti erano figure funerarie che costituivano un elemento indispensabile del corredo funebre. In certi casi erano doni delle persone vicine al defunto per guadagnarsi la sua benevolenza dall’aldilà e per garantire i propri servigi anche dopo la morte. Figurine in osso e avorio, pre-dinastiche 4.000-3.600 a.C. Queste statuette si collocano nel periodo Naqada I e rappresentano classi o gruppi sociali. Per realizzare gli occhi della figura centrale sono stati utilizzati lapislazzuli. Tipica sepoltura pre-dinastica, Egitto meridionale, circa 3.400 a.C. Negli stadi iniziali della civilizzazione della Valle del Nilo i siti di sepoltura contenevano il corpo in posizione rannicchiato ed una collezione di oggetti. La conservazione del corpo è avvenuta naturalmente, grazie ad un fenomeno di essiccazione indotto dal contatto con la sabbia del deserto. Pannello assiro, Iraq, 883-859 a.C. Le sale 7-8 del British Museum espongono i bassorilievi ritrovati nel palazzo di Nimrud, in Iraq. Questo mostra la caccia al leone del re Ashurnasirpal II. Per celebrarne l’immenso potere è rappresentato mentre lotta con il leone a mani nude. La caccia al leone era una sport molto praticato dai sovrani assiri, e fu condotto con tale accanimento che portò all’estinzione dei leoni nella regione. Figurina delle Cicladi, 2.300-2.200 a.C. Le celebri figurine cicladiche in marmo provengono da una società che non ha lasciato alcuna testimonianza scritta, per cui gli archeologi hanno potuto formulare solamente teorie sul loro significato. Probabilmente rappresentano oggetti di culto che accompagnavano i loro proprietari fino alla tomba. Fregi, metope e altorilievi del Partenone, Grecia, 447-432 a.C. Questi numerosi reperti sono il simbolo delle appropriazioni che gli inglesi hanno indebitamente operato per riempire il British Museum. La loro presenza all’interno del museo londinese è clamorosa proprio in virtù del fatto che essi rivestivano il simbolo della Grecia antica, il Partenone di Atene. Quando nel 1687 i veneziani, guidati da Francesco Morosini, attaccarono Atene, gli Ottomani si asserragliarono nell’acropoli usando il Partenone come santabarbara. Una palla di cannone veneziana centrò proprio il Partenone e la deflagrazione lo distrusse parzialmente. Nel 1801, l’ambasciatore britannico a Costantinopoli, il Conte di Elgin, ottenne il permesse dal Sultano ottomano di svolgere rilievi sulle rovine del Partenone e interpretò questa licenza a modo suo, asportando tutte le sculture e i reperti che trovò. Ancora oggi è in corso una contesa tra Grecia e Inghilterra per la restituzione della ricca collezione di reperti. Elmo in bronzo di Murmillo (gladiatore), Roma, I secolo d.C. Tesoro di Beaurains, Francia settentrionale, 293-305 d.C. Il tesoro di Beaurains apparteneva ad un ufficiale dell’esercito romano e gli fu donato dall’imperatore stesso. La moneta d’oro riporta il ritratto dell’imperatore Costantino.