sabato 20 agosto 2011

Dadaab Refugee Camp

La cittadina di Dadaab è situata nel distretto di Garissa nella provincia nord-orientale del Kenya, a circa cinquecento chilometri da Wajir e un’ottantina di chilometri dal confine somalo. Questa zona è caratterizzata da un ambiente semi-desertico con una rada vegetazione composta da acacie spinose e bassi arbusti e contraddistinto da temperature elevatissime (fino a cinquanta gradi) e scarse precipitazioni. Nel 1991, l’esplosione del conflitto interclanico in Somalia che ha dato il via ad una guerra civile che prosegue tutt’oggi ha provocato un eccezionale flusso di profughi verso il Kenya e verso l’Etiopia. A partire da quell’anno, per accogliere ed in qualche modo contenere l’enorme numero di esuli in fuga, il governo keniano e la comunità internazionale hanno provveduto alla realizzazione di tre campi profughi intorno alla cittadina di Dadaab: Ifo, Dagahaley e Hagadera. In totale questi campi coprono una superficie di circa cinquanta chilometri quadrati e si trovano entro un raggio di diciotto chilometri da Dadaab. I campi sono stati costruiti per accogliere circa novantamila rifugiati.



Il programma dell’UNCHR (alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), l’organizzazione preposta alla gestione dei campi, è sempre stato quello di procedere ad un progressivo rimpatrio dei profughi fino alla chiusura dei campi. Purtroppo la guerra somala ha subito una continua recrudescenza e ha visto l’ingresso in campo di nuovi attori (le corti islamiche Al-Shabaab e l’esercito dell’unione africana), per cui l’arrivo di cittadini somali ai campi keniani è proseguito nel corso degli anni ad un ritmo costante. Alla fine del 2010, i campi di Dadaab erano arrivati ad ospitare trecentomila rifugiati. I campi si sono allargati a dismisura, e le organizzazioni coinvolte hanno dovuto adeguare i campi, inseguendo una continua emergenza, alle esigenze di una popolazione residente in travolgente aumento. 43.000 latrine, 16 pozzi, 3 ospedali e 15 ambulatori, 19 scuole primarie e 3 scuole secondarie … sono solo alcune delle strutture realizzate per fornire i servizi primari ai profughi. Per gestire questa immensa crisi umanitaria sono attualmente mobilitate 4 agenzie delle nazioni unite, 4 agenzie governative, 25 ONG, più altre organizzazioni presenti a vario titolo. Nonostante l’imponente dispiegamento di forze umanitarie la condizione dei profughi rimane critica. Soltanto il 50% dei bambini riesce ad accedere all’istruzione primaria e meno del 30% a quella secondaria. Il tasso di disoccupazione è del 98%. Le strutture sanitarie stentano a far fronte alle richieste di assistenza. Le razioni alimentari distribuite due volte al mese e fissate secondo gli standard minimi di 2100 calorie al giorno, a causa del numero di profughi si sono progressivamente ridotte e nel 2010 sono state quasi dimezzate. Malgrado i 220 agenti di polizia la sicurezza è un problema grave. Le donne alla ricerca di legna da ardere sono costrette ad allontanarsi sempre di più dalle loro case e sono esposte a rapimenti e stupri, eventi che si verificano con preoccupante frequenza. Ai profughi non è permesso allontanarsi dai confini dei campi, delimitati da reti e filo spinato. Al massimo possono spostarsi da un campo all’altro esibendo un pass identificativo e avvalendosi degli autobus che svolgono un servizio di trasporto. Il risultato è che molti somali sono all’interno dei campi da vent’anni, senza lavoro né altre occupazioni, sopravvivendo solo grazie agli aiuti distribuiti dalle varie organizzazioni umanitarie. E quel che è peggio, ci sono migliaia di bambini nati nei campi che non conoscono altra realtà che quella di profugo.




I primi arrivati nei campi sono stati alloggiati in baracche di legno e lamiera, ma da molti anni ormai i profughi per avere un alloggio sono costretti a costruirsi i propri “aqal” (tradizionali capanne nomadi a forma di cupola) con i materiali che riescono a procurarsi nei campi, soprattutto stracci, i sacchi vuoti degli aiuti e pezzi di teloni plastici. A peggiorare la situazione nel 2011 si è verificata in tutto il corno d’Africa la peggiore siccità degli ultimi sessant’anni. I somali in fuga dalla guerra e dalla carestia arrivano a gruppi di mille al giorno. Ad oggi i campi sono arrivati ad ospitare quattrocentomila persone, ed entro la fine dell’anno supereranno le quattrocentocinquantamila presenze. Dadaab è diventato il campo profughi più grande del mondo. E’ pronto ormai da mesi il quarto campo di Dadaab, IFO II, ma alcune resistenze del governo keniano ne ritardano l’apertura. Il governo keniano è contrario a migliorare il livello dell’assistenza, perché i profughi possono essere incentivati a stabilirsi nei campi. La realtà dei fatti è che fino a che il conflitto somalo proseguirà, i profughi non potranno tornare in patria e dopo vent’anni si sono già stabiliti a vivere a Dadaab con le loro famiglie. Il grande interrogativo che le organizzazioni coinvolte si pongono è quando finisce lo stato di emergenza e deve iniziare l’aiuto allo sviluppo di una comunità? Questo non è però il solo quesito. Durante la siccità e la carestia, e quella del 2011 non è stata l’unica dal 1991, fuori dai campi ci sono centinaia di migliaia di somali keniani che vivono infinitamente peggio dei somali rifugiati, ai quali è garantita una seppur misera sopravvivenza. Per chi muore di fame ma non può beneficiare dello status di rifugiato non vale l’emergenza umanitaria? Non è difficile immaginare che tra i rifugiati che giungono a chiedere asilo nei campi ci siano molti somali del Kenya, in cerca di acqua e cibo per se e per le loro famiglie. La carestia, che in tre mesi si stima abbia ucciso quasi trentamila bambini, ha concentrato l’attenzione del mondo su questo angolo d’Africa. Tra poco essa non sarà più una notizia e calerà nuovamente l’oblio mediatico su Dadaab e sulla tragedia dei somali.

sabato 6 agosto 2011

La suggestione mistica della montagna


Dopo una corsa senza ostacoli di mille e duecento chilometri, dalle rive del fiume Mississippi verso il Pacifico, la Grande Prateria settentrionale del continente americano si infrange contro una barriera di rocce che precedono le Montagne Rocciose e sembrano far loro la guardia. Gli americani hanno battezzato queste rocce “The Black Hills”, traducendo letteralmente il vecchio nome che avevano dato loro i Lakota Sioux: Paha Sapa, appunto le Colline Nere.[…]
Al mattino presto, quando il sole che sorge illumina la loro faccia rivolta a est, e al tramonto, quando il loro profilo dolomitico si staglia contro il cielo immenso del West alle loro spalle, da quei monti coperti di conifere e alti duemila metri si spigiona un richiamo profondo e inspiegabile. […]
[…] molto prima che gli scultori di monumenti e i produttori di Hollywood sentissero il richiamo delle Colline Nere, i Lakota Sioux avevano già stabilito che le Paha Sapa erano un luogo sacro, la casa di Uakan Tanka, il Grande Padre Mistero, il Grande Spirito, il Grande Creatore. La casa di Dio.
Sarebbe facile, naturalmente, concludere che quegli uomini ingenui e primitivi si sono lasciati incantare dall’incomprensibile bellezza di una catena di monti scuri che sboccia nel mezzo di una pianura arida, come un miraggio o un presagio delle grandi Rocciose. Ma chi ha visto le colline della Palestina, le alture nude, color ossa e sangue sulle quali sorge Gerusalemme, la città sacra di ben tre grandi religioni, il Cristianesimo, l’Islamismo e l’Ebraismo, sa che tutti gli uomini, e non solo i Sioux, associano istintivamente le suggestioni naturali con il richiamo del soprannaturale. Un’etologa americana, Jane Goodall, che da quarant’anni studia il comportamento dei nostri cugini, gli scimpanzé africani, sostiene, dopo aver visto le scimmie ammutolire estatiche davanti a catene montane e cascate alpine, che la prima idea di Dio dovette nascere negli uomini alla vista di un monte.
Brano tratto dal libro “Gli Spiriti non dimenticano”, di Vittorio Zucconi.