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sabato 26 novembre 2022

Sete di giustizia


Si è investiti immediatamente dai problemi della gente di Wajir , non è necessario un tempo lungo per comprenderli. Da anni non piove in maniera significativa, l'acqua è una risorsa scarsa e quindi molto preziosa. Trovare il cibo con cui sfamarsi, per la maggioranza somala della popolazione, è una lotta quotidiana che non sempre viene vinta. Non c'è lavoro e quindi fonti di reddito. "Ninasukuma maisha" - racconta Bilai "trascino la vita come posso". L'istruzione è la strada più efficace per cambiare il corso della vita di sé e della propria famiglia. Purtroppo il circolo vizioso della povertà la rende inaccessibile per molti, troppi. Coloro che riescono a trovare i soldi per frequentare la scuola sono costretti a sedersi sulla sabbia fissando una lavagna appoggiata ad un albero, perché le scuole hanno un tragico problema di infrastrutture. L'istruzione pubblica è scarsa, quella privata è molto costosa. Un enorme numero di diversamente abili cerca un posto nella società. Questa parte incredibilmente grande della popolazione è alimentata dalla malnutrizione delle madri, dalle mutilazioni genitali femminili, dalla consanguineità.

Gli anziani non autosufficienti sono una zavorra della quale le famiglie faticano a farsi carico; per questo molti sono abbandonati a sé stessi, soli a fare i conti con la propria fame e sete.


La vastità di questi problemi è schiacciante e una disperata impotenza si impadronisce di noi, al nostro arrivo. Eppure una piccola luce di speranza viaggia con noi grazie alla diocesi di Forli-Bertinoro, alle  persone  e alle associazioni che formano il Coordinamento Diocesano per Wajir e che rappresentiamo in questo viaggio. Il coordinamento è ispirato dalle opere sante di Annalena e guidato dalla memoria di Don Mino. Sono trascorsi tre anni dall'ultima visita a Wajir e i frutti di ciò che è stato realizzato attenuano il senso di impotenza e ci spingono a continuare la nostra testimonianza di fraternità. I pozzi scavati donano acqua a tante famiglie, che ringraziano commosse per il dono ricevuto. Le aule della scuola primaria e dell'asilo parrocchiale ospitano tanti bambini che ora hanno l'opportunità di studiare in un ambiente dignitoso. Il sostegno a distanza rivolto a decine di ragazzi che vivono nel bisogno è la speranza per le loro famiglie, ma soprattutto è l'orgoglio di genitori che vedono davanti ai loro figli un futuro sicuro. L'assistenza portata dalle suore del centro di riabilitazione e dalle scuole - primaria e secondaria - per sordi rappresenta una fondamentale opportunità di emancipazione e crescita personale per centinaia di bambini diversamente abili.


Il progetto di contrasto agli effetti della siccità che ha portato alla distribuzione di venti sistemi di irrigazione ci impressiona per i suoi risultati. Là dove tutto è sabbia riarsa dal sole, compaiono appezzamenti verdi e rigogliosi, dove gli agricoltori possono produrre cibo per le famiglie e per il bestiame. Le distribuzioni di alimenti condotte nel corso di questo lungo periodo di carestia hanno permesso di sopravvivere a tanti indigenti, soprattutto anziani non autosufficienti. La visita alle famiglie dei più poveri che i volontari della parrocchia conducono rappresenta un momento indispensabile di relazione e di incontro.

Abbiamo la sensazione che la strada sia quella giusta. Si è formato un gruppo di lavoro in Italia ed è nato un gruppo di lavoro a Wajir per amministrare e garantire le opere che pensiamo insieme. I problemi sono schiaccianti ma intendiamo camminare insieme a queste persone per alleviare le loro sofferenze all'insegna del volto più luminoso della Carità cristiana, quello che ci hanno mostrato Annalena e Don Mino. 


Mariaserena, Sauro, Michele

martedì 14 giugno 2022

Siccità e Carestia nel Corno d'Africa

Nel 2011, la Somalia ha vissuto una devastante carestia che ha ucciso oltre un quarto di milione di persone, metà delle quali bambini di età inferiore ai cinque anni. La comunità internazionale non è riuscita ad agire in tempo, nonostante i ripetuti avvertimenti della crisi imminente.

Poco più di un decennio dopo, i leader mondiali agiscono ancora una volta tardi e in misura insufficiente per scongiurare la carestia catastrofica che si è abbattuta in Africa orientale. 


L'attuale crisi nel Corno d'Africa va avanti da più di due anni. La siccità indotta dal repentino cambiamento climatico si è abbattuta con una crescente intensità negli ultimi dieci anni.

Eppure, la regione è una delle meno responsabili della crisi climatica, emettendo lo 0,1% delle emissioni globali di carbonio.

Quasi la metà del bestiame nell'Africa orientale è morta. Il numero di persone che affrontano la fame estrema in Etiopia, Kenya e Somalia è più che raddoppiato rispetto allo scorso anno, da oltre 10 milioni a oltre 23 milioni di oggi.

Questo lunghissimo periodo di siccità è stato interrotto solamente da brevi precipitazioni di entità estrema, scatenando alluvioni che hanno reso ancor più difficile la vita delle persone senza permettere un utilizzo graduale e prolungato dell’acqua.

In Kenya la siccità ha causato un calo del 70% della produzione agricola e 3,5 milioni di persone affrontano una fame acuta. Il conflitto in Ucraina ha peggiorato ulteriormente la situazione, portando i prezzi dei generi alimentari, già in aumento, al livello più alto mai registrato, rendendo il cibo irraggiungibile per milioni di persone.

Il coordinamento diocesano per Wajir mantiene i riflettori accesi su ciò che accade in questa regione, rimanendo aggiornato in tempo reale dalle realtà caritatevoli locali che sostiene da molto tempo. Nella contea di Wajir, nell’estremo nord-est del paese al confine con la Somalia, vivono quasi 800.000 persone, il 94% delle quali vive in povertà estrema. Da alcune settimane riceviamo notizia di bambini ricoverati negli ospedali in grave stato di malnutrizione. Molti di loro purtroppo non ce l’hanno fatta. Il coordinamento diocesano continua ad aiutare la popolazione di Wajir attraverso azioni a breve e medio termine. Siamo impegnati a far fronte alle necessità contingenti di tanti beneficiari che hanno necessità immediata di cibo ed acqua. Attraverso azioni mirate all’incremento delle produzioni agricole e della capacità di stoccaggio di acqua tentiamo inoltre di aumentare la capacità di adattamento della popolazione alla siccità, che è divenuta ormai una condizione costante nel Corno d’Africa.

associazionevolontaria@gmail.com


lunedì 15 ottobre 2018

La Crosta dell'Africa


Nudos Amat Eremus
Il Deserto ama coloro che non hanno Nulla
(San Girolamo)

Ho capito recentemente quanto sia importante accompagnare persone alla scoperta dell’Africa. Frequentando con assiduità i progetti (perché questo è ciò che faccio) ho finito per dare per scontati tantissimi aspetti che invece mi avevano infiammato all’inizio. Inutile negarlo: con il tempo si perde un po' di poesia e le emozioni si fanno più sfumate. Sento l’esigenza di partire, di tornare, ma a volte fatico a ricordare il perché.
Quando a viaggiare non sono solo è tutto diverso. È come tornare indietro nel tempo. Riesco a rivivere tutto attraverso gli occhi, le emozioni, gli interrogativi di chi è al mio fianco.
L’Africa ha due piani di lettura.
C’è la crosta, il piano superficiale, che contiene il disagio, la povertà, i contrattempi, le malattie. È la

venerdì 26 gennaio 2018

L'Eremo nel Deserto (Ho pregato con un'aquila)

“Vieni nel deserto, Io parlerò al tuo cuore” (Osea [2,16])

“Dio creò il deserto perché gli uomini potessero conoscere la loro anima (proverbio Tuareg)


L’avevo promesso a me stesso: la prossima volta che fossi venuto a Wajir mi sarei concesso un periodo di deserto all’interno dell’eremo che Annalena (lei lo chiamava “eremitaggio”) aveva costruito. Eccomi qua, sulla cima della torre. Il clima è fantastico, imprevedibilmente arieggiato e piacevole, lontano dal riverbero della sabbia incandescente. C’è silenzio, sento solamente i suoni della natura fino a quando i muezzin decidono che è giunta l’ora di richiamare i fedeli alla preghiera. All’esterno delle mura dell’enorme terreno assegnato al Rehab è sorta una città. All’interno c’è


qualche piccolo edificio ma il paesaggio è lo stesso bush selvaggio che vedeva Annalena 43 anni fa, quando costruì l’eremitaggio. Sono sbalordito dalla quantità di uccelli che mi circondano: storni blu, buceri, turachi, colombi, tessitori, ibis, marabù. L’incontro più incredibile è però un nibbio dal becco giallo che mi rimane accanto, appollaiato sulla cima dell’acacia del cortile dell’eremitaggio, per quasi un’ora. Rimane immobile ma attentaofino al momento in cui decolla planando sotto di me. Mi sento un privilegiato e sento il cuore galleggiare. Ho portato con me la raccolta delle lettere di Annalena (Lettere dal Kenya – 1969-1985). Rileggo le parti che riguardano l’eremitaggio, ed ora assumono un significato ed un valore che mi sovrasta e mi commuove…


13 aprile 1970
In Africa o si è contemplativi o si fallisce tutto e chi ci rimette sono sempre loro: i poveri. Qui non c’è nessuno o quasi nessuno in grado o disposto a darti quell’ossigeno spirituale senza il quale
l’anima è in continuo pericolo di asfissia. Per questo costruiremo presto il nostro eremitaggio per la nostra giornata di “deserto” settimanale, per quello più lungo annuale e per offrire silenzio, solitudine, pace a tutti quelli che vorranno venirci, i bianchi naturalmente, perché sono loro ad averne bisogno.

8 febbraio 1975
Naturalmente nell’eremitaggio non metteremo mai né luce né acqua. L’acqua l’attingeremo a mano dal pozzo e la luce dal fondo dell’anima… poi ho comprato del ferro di scarto, meglio del ferro vecchio per farne una specie di pioli incassati in un angolo del muro della cappella per salire fino alla cima della torre. Forse non vi ho ancora spiegato che la cappella dell’eremitaggio l’ho ideata come una torre tutta vuota dentro fino al tetto. Alla sommità intendo lasciare solo quattro colonnine agli angoli e il resto tutto aperto per permettere di spaziare liberamente sull’orizzonte, per cui ho ideato una specie di scaletta incassata nel muro per salire fino in cima alla torre.

10 febbraio 1975
Il pozzo tende verso il centro, gli alberelli vagheggianti, è un sogno un balsamo per il cuore andare
laggiù anche quando il sole è implacabile. Prendimi alla lettera… uno starebbe sempre là. Già il cuore sperimenta una pace, una dolcezza, una serenità insondabili. E’ una condizione di riposo dell’anima, un allentamento dolce, senza scosse, di tensioni radicate nel profondo, uno stato di fiducia senza tremiti, senza bui, senza debolezze, proprio come un bimbo sul seno della sua mamma.

14 ottobre 1975
La gioia di poter dare a un altro, a un pellegrino dell’Assoluto come noi, a tanti e poi tanti che verranno alla ricerca di silenzio, assetati di Dio… la gioia di poter dare, dicevo, di poter offrire il nostro eremitaggio unico al mondo, è talmente “divina” che sarei pronta a costruirne un altro per noi pur di poter costantemente offrire il nostro a chiunque volesse venirci a fare un’esperienza di “deserto”.

5 novembre 1982
Stesa sulla stuoia in cappella nel vuoto alto e austero della torre, contemplavo le meraviglie di Dio… non è possibile che esista un altro luogo al mondo come il nostro eremitaggio. Come ho potuto pensarlo così profondamente mistico, sobrio, austero, gli alberi di spine verdissimi pieni di uccelli da favola, il pozzo della samaritana, l’acqua della vita, il cielo da ogni lato, il muro altissimo che esclude e spalanca su orizzonti infiniti…


23 dicembre 1983
Mi sono persa nell’ascolto del vento, dei canti degli uccelli, delle imposte che sbattono leggermente… mi sono persa nell’incanto delle rose del deserto che mi sorridono brillanti qui appena fuori dalla porta, dalle finestrelle ricamate, di queste mura rosa che sanno di pace e di antico. Tutto amo qui: gli alberi di spine, il pozzo rotondo col ferro ritorto e la carrucola e le parole scritte tanti anni fa e ormai sbiadite: “la mia anima ha sete di Dio, del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?”. La torre cava e quei pioli conficcati nel muro con quella salita un po' ardua a significare che non si entra se non per la porta stretta, non si cammina verso Dio, ma ci si inerpica e il respiro deve farsi faticoso e il cuore deve tremare perché Lui è santo e poi perché l’attesa di ogni incontro d’amore fa tremare il cuore.

martedì 28 luglio 2015

Wajir Project - Frontier Charity

I recently met in Nairobi the team of Wajir Day Care Centre that is voluntary running the
project since 2008. The meeting was held in the Kenyan capital city because in Wajir (located few kilometers from Somalia borders) is not guaranteed the minimum security standard. The purpose of the meeting was to plan the intervention of distribution of food during the drought and famine expected in the coming months. I could listen to the stories of John, Patrick and Father Alfred about the current situation and the perspective doesn’t seem encouraging. Kenya is continuously shaken by Al-Shabaab’s attacks and massacres. Over the last six months there have been the massacre of students at the University of Garissa (147 victims), the bloodshed of

Progetto Wajir: Carità di Frontiera

Ho recentemente incontrato a Nairobi i responsabili del centro per anziani di Wajir che VolontariA sostiene dal 2008. L’incontro si è svolto nella capitale keniana perché a Wajir
(situata a pochi chilometri dal confino con la Somalia) non sono garantite le condizioni minime di sicurezza. Lo scopo dell’incontro era di programmare l’intervento di distribuzione di generi alimentari durante il periodo di siccità e carestia previsto nei prossimi mesi. Ho potuto ascoltare i racconti di John, Patrick e Padre Alfred in merito alla situazione attuale e le prospettive non sembrano per nulla incoraggianti. Il Kenya è continuamente sconvolto da attentati e massacri da parte dei terroristi Al-Shabaab provenienti dalla Somalia. Negli ultimi sei mesi sono avvenuti il massacro di studenti all’università di Garissa (147morti), la strage di non-musulmani su un autobus (28 morti) e

lunedì 23 settembre 2013

Con Chi la Pace non l'ha mai Conosciuta

Nella settimana di avvicinamento ad un grande evento di Pace come la Marcia della Pace della Romagna e mentre è in corso un immane atto di violenza, l’attacco dei terroristi Shaabab ad un centro commerciale di Nairobi, non riesco a non pensare a chi ogni giorno della propria vita desidera ardentemente l’uno e si trova costantemente a vivere l’altro.
Nella nostra società parlare di Pace in molti casi significa dissertare di argomenti astratti e filosofici, mentre al mondo ci sono persone per cui questo valore ha un significato ben preciso e concreto. E in questo senso nei nostri cuori la popolazione di Wajir occupa senz’altro il primo posto. Un popolo duro che si è scelto leggi severe e che vive in un ambiente ostile. Un popolo che a causa dei conflitti è ancora costretto a fronteggiare i nemici atavici dell’umanità: la fame, la carestia, l’analfabetismo e la malattia.
I conflitti interclanici che da sempre martirizzano le genti somale

sabato 21 luglio 2012

Storie di Successo

Abbiamo appena ricevuto da Wajir alcune storie che raccontano il buon esito raggiunto dalle attività generatrici di reddito promosse tra gli anziani del Centro. Il tono della comunicazione inviataci è giustamente pieno di orgoglio. I volontari e gli operatori del Centro Diurno per Anziani di Wajir stanno lavorando in un contesto durissimo. Alle difficoltà legate alle promozione di attività agricole e produttive in una zona siccitosa e desertica come quella di Wajir, si è aggiunto il clima di insicurezza e di violenza derivante dai continui attentati degli Shabaab, i fondamentalisti somali impegnati senza sosta a destabilizzare il Kenya.
Queste storie di successo rappresentano motivi di soddisfazione assolutamente fondamentali per andare avanti in condizioni ambientali così complicate.
La prima storia è quella di una nonna del centro, che ad Agosto 2011 ha beneficiato di una somma per stabilire un piccolo punto vendita presso il suo quartiere. Le vendite sono andate bene da subito, e la sua famiglia ha cominciato a beneficiare di una piccola ma costante fonte di reddito.

lunedì 18 giugno 2012

Essere Bambini a Wajir

Propongo due brevi reportage trasmessi alcuni mesi fa da una televisione kenyana. Raccontano storie di bambini, e attraverso esse testimoniano cosa significhi vivere a Wajir.
Il primo video mostra la difficoltà dell’approvvigionamento idrico durante la siccità verificatasi alla fine del 2011 in tutto il Corno d’Africa. Spesso il rifornimento dell’acqua è affidato ai bambini, che sono costretti a percorrere fino a 25 km per raggiungere il punto di abbeverata più vicino. E’ questo il caso di Ayub Mohammed al quale a soli 7 anni spetta la responsabilità del trasporto dell’acqua e quindi della sopravvivenza della madre e dei fratellini.

Il secondo video racconta la storia di un ragazzo ipovedente, Mohammed Abdikerr, e delle difficoltà che incontra a scuola a causa della sua menomazione. Anche i cinque fratelli mostrano i sintomi della malattia agli occhi di Mohammed, ma a differenza sua non vanno a scuola. Ma le immagini documentano anche le condizioni della scuola di Mohammed, dove cinquecento ragazzi sono gestiti da solamente quattro eroiche insegnanti.

martedì 24 aprile 2012

A Pelo d'Africa

“A Pelo d’Africa” è un libro eccezionale. Pubblicato nel 1978, racconta il viaggio intrapreso dal giornalista Giorgio Torelli e dal comandante Pino Bellini alla volta del Congo per consegnare un piccolo aeroplano Piper ai missionari di Uvira, nel Kivu. Dopo ventitré giorni e diciassette atterraggi i due avventurieri arrivarono nell’odierna Bujumbura, in Burundi, da dove poi il Piper fu trasportato fino in Congo. I fatti risalgono all’anno 1962 e al tempo ebbero una notevole risonanza mediatica. La scintilla che mosse Torelli a progettare il viaggio fu la notizia che i missionari in Congo sarebbero rimasti al loro posto nonostante l’eccidio di Kindu, in cui tredici aviatori italiani furono trucidati dai guerriglieri.
Torelli decise di rispondere all’appello dei missionari e si adoperò per trovare un aeroplano che li potesse aiutare nella loro opera di evangelizzazione e di assistenza alla popolazione locale. Il piccolo Piper Eden sembrava troppo piccolo per affrontare un viaggio così lungo e difficile, ma il giornalista persistette e trovò nel comandante forlivese Bellini un coraggioso compagno di viaggio e sostenitore. Il 25 ottobre 1962 i due viaggiatori partirono dall’aeroporto di Forlì con due piccole valigie, uno scatolone contenente un presepe per i missionari, alcuni razzi di segnalazione ed un revolver.
Riporto due tra i brani che più mi hanno entusiasmato. Il primo riguarda il momento più critico di tutta la trasvolata, quando l’aeroplanino ha dovuto attraversare una tempesta di sabbia sul deserto libico, mentre i militari di una base militare americana negavano loro l’atterraggio di emergenza.
Bellini richiama, richiama e richiama ancora. Solo il vento con noi e noi con lui. Adesso non si vede neanche più Tripoli, procediamo a orizzonte artificiale dentro un tunnel di grigio imperlato. Roger, gracchia al quarto appello di Bellini la radio americana che a questo punto – appare chiaro ai condannati – risponde per obbligo internazionale di rapporto fra terra e cielo, ma se ne stropiccia, non gli piacciamo, ci siamo di troppo sul suo spazio, fuori dai piedi e dai pollici, se ci sfracelliamo è perché non dovevamo involarci.
Col fiato grosso come ho, sento che l’assoluto buio sui minuti avvenire ci separa da non so cosa, improbabilmente dalla salvezza, quasi certamente dall’addio; ho già indossato il tumulto dei sentimenti e anche quel lindore che forniscono i frammenti decisivi del tempo. Perciò avverto intera e mirabile la grandezza romagnola di Bellini che, strabattendosi della potenza americana, branca il microfono, picchia il pugno destro sull’apparato-radio e mentre governa con la salda sinistra quel che resta di noi – una scatola scossa – urla alla base atomica con quanto fiato gli resta: “Roger, ‘sti dù maròn!”.
Il secondo estratto racconta il sorvolo delle savane popolate dalla celebre fauna africana. I due si trovano, proprio nel momento di massima contemplazione di quel meraviglioso paesaggio, a fronteggiare un attacco di dissenteria del pilota che la mattina, per aspirare dell’olio versato in eccesso da un addetto dell’aeroporto di Juba nel motore del piper, era incorso in una involontaria quanto abbondante bevuta.
Mi par di leggere sul nero degli strumenti che stiamo a ottocento metri di quota, a moti e sbalzi da aquilone. E’ un’altezza irrilevante, si vede e si gusta tutto. Sotto di noi, come uno sterminato ventaglio, si sono schiuse le prospettive d’erba. Branchi puntiformi di animali, che sono certo gazzelle, antilopi e poi bufali e poi zebre e gnu, anche facoceri e loro parenti di radunata destinati a mangiare e bere, pellegrinare e percorrere le ore dall’alba alla luna, vanno disegnandosi sulla mappa di un terreno memorabile, colmo di gradazioni e grafiche. Dalle ombrelle delle acacie spuntano, e si contano, i colli lenti delle giraffe che non è escluso guardino in su. Dentro la cosa che fa rombo, c’è uno di Romagna con gli strizzoni, non è bello ridirlo ma è così. Io conto i colli delle giraffe e insisto a porgere l’imbuto, a tenere il volantino, a correggerlo, a pompare, vorrei fotografare, scrivere, meditare, ahi e ancora ahi dice la voce del comandante, stiamo puntando ai grandi laghi con le giraffe antidiluviane di sotto, gli occhi strabuzzati di sopra, le carezzevoli e ripetute sinuosità dell’Uganda, di sicuro il posto più bello che abbiamo rigato con un volo a strappi. Al nuovo ahi del comandante si disegnano le mandrie erbivore degli elefanti. Gli elefanti hanno movimenti di massa, un popolo in diaspora cronica, il grigio delle pelli sottostanti è chiazzato di sole, albero dopo albero.
E’ più bello l’elefante libero o la Gioconda al Louvre? Sento insorgere dal di dentro una voce di Adamo, essere qui così, come oggi, contenuti in un piccolo dramma ma liberi di agire in avanti perché il motore canta nitido e le ali reggono. In definitiva, questo sarà il momento da iscrivere a futura memoria e ripassare per il seguito di una vita europea, gl’inverni e le stagioni in dialetto che verranno.
M.L.

lunedì 26 settembre 2011

Wajir 1970

I ragazzi con l’eschimo ed i libri in braccio, tenuti a malapena da un elastico, si incamminano verso scuola ed un’interminabile fila di biciclette accompagna  chi si reca al lavoro.
Ci sono ancora le sirene nelle fabbriche che gridano l’inizio e la fine del lavoro, ma si respira aria di cambiamento.
Ragazzi con i capelli lunghi, l’aria sognante di chi immagina un futuro senza guerre e senza competizione e quelli impegnati che credono nella giustizia sociale, nella rivoluzione culturale, da attuare ora e subito, costi quel che costi.
Ma il mattino è giovane e mentre ritorno a casa incontro Renè bella, giovane, longilinea con lo sguardo in un futuro che stenta a venire, che mi racconta di un posto lontano, in Africa,  dove si soffre la fame ed i bambini muoiono, dove c’è guerra e dove la gente ha bisogno di pane ed acqua.
Mani tese sta organizzando un campo di lavoro, una cinquantina di giovani, provenienti da tutto il mondo, mettono a disposizione il loro tempo e la loro esperienza per realizzare un progetto: un villaggio in cui i giovani che riescano a sopravvivere, possano studiare e mantenersi grazie alla coltivazione di un grande orto.
Bisogna costruire dormitori, portare l’acqua da lontano, fare la scuola, le recinzioni e chissà cosa ancora, ma  forse la strada giusta è quella di aiutare chi ti chiede aiuto, porti solo le domande a cui riesci a rispondere con le tue azioni, solo annegando le mani nella farina e facendo fatica ad impastarla riesci a fare il pane.
Ed il pane che cuoci ha finalmente la fragranza di una vita migliore.
Ci prepariamo, ci conosciamo, siamo pronti al grande viaggio.
Ci troviamo tutti a Roma, destinazione Nairobi.
Clima euforico di chi inizia un’avventura che ti segnerà per sempre
Visita alla Consolata a Nairobi e preparazione della spedizione a Wajir. Domani si parte.
La spedizione è composta da tre jeep della Toyota grandi abbastanza da contenere i materiali e tutti noi.
Ci aspettano al campo gli altri ragazzi che sono già sul posto da alcuni giorni.
Siamo seduti in terra, no ci sono sedili sulle auto e la strada è in terra battuta con grandi buche che ci fanno sobbalzare continuamente.
Ci aspettano tre giorni di cammino.
Si fa una sosta in una trattoria sulla strada…  Ovvero una stanza scavata nella terra dove servono pezzi di carne maleodorante su un tavolo di legno. Niente piatti, niente posate, niente tovaglie, si mangia con le mani.
Il risultato è che appena saliti in macchina, dopo pochi chilometri, tutti vomitano anche l’anima.
Guadiamo un fiume senza ponti e passiamo la notte in una missione.
La sera ci fermiamo a guardare la luna e le stelle. Pare di essere in un altro pianeta. Una luna enorme che illumina a giorno il bush, un cielo che ti rapisce e ti insegna a volare. Animali che ti sussurrano cosa vuol dire essere liberi. Sensazioni nuove che ti inebriano, ti sembra di cominciare solo ora a comprendere il senso della vita. Ci voleva l’Africa per capire che l’uomo non domina la natura ma che la sua vita non ha alcun senso al di fuori di essa.
Si riparte su questo sentiero che non finisce mai con gli animali che corrono a fianco della carovana. Il paesaggio sempre uguale.
Si incontrano sporadici gruppi di indigeni che portano a pascolare le bestie. Chiedono acqua come un mendicante chiede l’elemosina.
Gliene diamo quanto più possiamo.
Ci accampiamo con le tende, ceniamo con i cibi in scatola che ci sembrano leccornie e quando il sole spunta prepotente all’orizzonte, ripartiamo.
Stremati dal viaggio finalmente arriviamo a Wajir
Qualche edificio in muratura, qualche tenda ed il bush che si stende all’infinito.
Pochi indigeni e tanti ragazzi bianchi che popolano questo lembo di terra disperso nell’immensità. Accoglienza festosa, ci assegnano i posti dove dormire e si fa il primo briefing.
Progetto ambizioso: Costruire un villaggio per i ragazzi sopravvissuti, portare l’acqua e irrigare alcuni campi in modo che i ragazzi possano studiare e mantenersi coltivandoli.
Nel raggio di 1000 Km non esiste nessuno dedito all’agricoltura ma sono solo piccole tribù che praticano la pastorizia.
Come fantasmi venuti dal nulla, arrivano da tutte le direzioni, al tramonto, quando il sole diventa rosso e la terra si prepara a riposare nell’oscurità della notte.
Magri, macilenti, non si sa da dove e dove passano il resto della giornata, arrivano e basta.
Si mettono in cerchio intorno al grande albero che troneggia al centro del villaggio, unico essere vivente che sprezzante delle difficoltà umane, ricorda a tutti l’immanenza della vita.
Occhi grandi, mani vuote, non chiedono, ma protestano il diritto alla vita solo con la loro silenziosa presenza.
Donne sole che portano con se piccoli uomini aggrappati alle loro povere vesti.
Anche loro non chiedono, hanno invece qualcosa da vendere: la loro dignità. Anche se allo stremo delle forze, proteggono la giovane vita a loro affidata, prima che la loro stessa vita.
Spesso i bimbi muoiono, ma non ci sono lacrime o disperazione, la morte fa parte della vita, ci viene data e ci viene tolta indipendentemente dalla nostra volontà.
Un fatalismo non cinico ma legato all’eterno ciclo della natura.
Solo così si comprende che la morte non è l’inizio di un’altra vita né la negazione della vita stessa, ma fa parte di un disegno naturale, di un ciclo a cui siamo chiamati ad assoggettarci, con lo spirito di chi si affida a quel mistero che tutto comanda.
Alla fine dominare la natura è una mera illusione dei popoli che si ritengono evoluti. E’ lei la nostra madre, senza di essa si perde il senso e l’essenza della vita stessa.
Le ragazze preparano un pastone in un’enorme pentola poggiata su pietre.
Sotto, il fuoco rosso come il sole, scalda il povero pasto che spesso non riuscirà a saziare.
Aspettano con infinita pazienza che venga distribuito, si presentano con ciotole di latta o barattoli raccattati chissà dove e si ritirano quasi nascondendosi a consumare quel pasto che è per loro speranza di vita.
Poi spariscono così come sono comparsi, nel nulla.
I bambini non si possono toccare, non si può dare loro il benché minimo segno di affetto pena il trovarli il giorno dopo pieni di lividi o addirittura morti. Gli altri bambini li aggrediscono perché non capiscono perché a quello si da affetto ed a loro no. Fa parte della natura umana il senso di giustizia, e non potendo dare a tutti lo stesso affetto, ci si deve rassegnare a non darlo a nessuno.
Si lavora alacremente, per quello che le forze ti consentono, ad una temperatura che nelle ore di punta sfiora i 50 gradi all’ombra
Arrivano spesso i soldati ed ispezionano il campo, vogliono essere sicuri che non ci siano armi e ci trattano male ed a volte ci minacciano. Non capiscono cosa ci facciamo sul loro territorio.
Con un piccolo aereo sgangherato che non vuole mettersi in moto, partiamo alla volta di Nairobi, qualche giorno per i souvenir e poi l’aereo che parte per riportarci a casa.
Stanchi, provati, ma ho avuto molto più di ciò che ho dato, insegnamenti che mi hanno accompagnato per il resto della mia vita.
Ho compreso poche cose:
cos’è la dignità
Il senso del tempo, entità effimera
La morte come valore di vita
la centralità della natura
voler dare vuol dire poter ricevere

Testimonianza scritta da Leandro Calvino, volontario a Wajir nel 1970.

sabato 10 settembre 2011

Siccità

Ahmed dice che la loro poesia narra spesso il dramma e la distruzione di clan che, attraversando un deserto, non sono riusciti a raggiungere un pozzo. Queste tragiche spedizioni durano giorni e perfino intere settimane. Per prime muoiono le capre e le pecore: senz’acqua non resistono più di quattro o i giorni. Poi viene il turno dei bambini. “Poi i bambini” dice Ahmed, senza aggiungere altro: né come reagiscano madri e padri, né come si svolgano i funerali. “Poi i bambini” ripete, e tace di nuovo. Fa così caldo che anche parlare è uno sforzo. E’ appena passato mezzogiorno, non si respira. “Poi muoiono le donne” riprende dopo una pausa. “I sopravvissuti non possono fermarsi; se si fermassero per ogni morto non arriverebbero mai al pozzo. Una sola morte se ne porterebbe dietro tutta una serie. Il clan in cammino sparirebbe durante il viaggio e nessuno riuscirebbe più a stabilire dov’è finito.”
[…] “Gli uomini e i cammelli resistono un po’ più a lungo. Un cammello può stare anche tre settimane senza bere, pur continuando a camminare per più di cinquecento chilometri. Per tutto questo tempo le cammelle conserveranno qualche goccia di latte. Queste tre settimane sono l’estremo limite di vita di uomini e cammelli qualora restassero soli al mondo.” “Soli al mondo!” esclamò Ahmed e nella sua voce risuonò lo spavento, poiché l’essere soli al mondo è esattamente quello che  un somalo non riesce ad immaginare. Uomini e cammelli avanzano alla ricerca di un pozzo con l’acqua. Camminano sempre più piano, sempre più a fatica, dato che il terreno che percorrono è costantemente esposto al sole. All’intorno tutto avvampa, brucia, ribolle: pietre, sabbia, aria. “Uomini e cammelli muoiono insieme” disse Ahmed. “Succede quando le mammelle delle cammelle diventano vuote e screpolate e l’uomo non trova più latte. Di solito uomini e animali hanno ancora la forza di trascinarsi fino all’ombra. E così infatti vengono ritrovati dopo morti: all’ombra o dove gli era parso che ce ne fosse”.
[…] “Siamo fatti così” dice: non con rassegnazione, ma con una sfumatura di orgoglio. La natura è qualcosa che è inutile contrastare o tentare di correggere e di cui non ci si libera. La natura è data da Dio, quindi è perfetta, come pure sono perfetti la siccità, le calura, i pozzi prosciugati e la morte durante il cammino. Se non ci fossero non conosceremmo la voluttà della pioggia, il sapore divino dell’acqua e la dolcezza vivificante del latte. Le bestie non godrebbero l’erba succosa, il profumo inebriante dei prati. L’uomo non saprebbe che cosa significhi bagnarsi in un ruscello di acqua e fresca e cristallina. Non si renderebbe conto di che paradiso siano queste cose.

Testo tratto da “Ebano” di Ryszard Kapusckinski. Le fotografie sono state scattate dai ragazzi del Day Care Centre for Grannies di Wajir, e documentano la terribile siccità che sta colpendo il corno d'Africa.

sabato 20 agosto 2011

Dadaab Refugee Camp

La cittadina di Dadaab è situata nel distretto di Garissa nella provincia nord-orientale del Kenya, a circa cinquecento chilometri da Wajir e un’ottantina di chilometri dal confine somalo. Questa zona è caratterizzata da un ambiente semi-desertico con una rada vegetazione composta da acacie spinose e bassi arbusti e contraddistinto da temperature elevatissime (fino a cinquanta gradi) e scarse precipitazioni. Nel 1991, l’esplosione del conflitto interclanico in Somalia che ha dato il via ad una guerra civile che prosegue tutt’oggi ha provocato un eccezionale flusso di profughi verso il Kenya e verso l’Etiopia. A partire da quell’anno, per accogliere ed in qualche modo contenere l’enorme numero di esuli in fuga, il governo keniano e la comunità internazionale hanno provveduto alla realizzazione di tre campi profughi intorno alla cittadina di Dadaab: Ifo, Dagahaley e Hagadera. In totale questi campi coprono una superficie di circa cinquanta chilometri quadrati e si trovano entro un raggio di diciotto chilometri da Dadaab. I campi sono stati costruiti per accogliere circa novantamila rifugiati.



Il programma dell’UNCHR (alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), l’organizzazione preposta alla gestione dei campi, è sempre stato quello di procedere ad un progressivo rimpatrio dei profughi fino alla chiusura dei campi. Purtroppo la guerra somala ha subito una continua recrudescenza e ha visto l’ingresso in campo di nuovi attori (le corti islamiche Al-Shabaab e l’esercito dell’unione africana), per cui l’arrivo di cittadini somali ai campi keniani è proseguito nel corso degli anni ad un ritmo costante. Alla fine del 2010, i campi di Dadaab erano arrivati ad ospitare trecentomila rifugiati. I campi si sono allargati a dismisura, e le organizzazioni coinvolte hanno dovuto adeguare i campi, inseguendo una continua emergenza, alle esigenze di una popolazione residente in travolgente aumento. 43.000 latrine, 16 pozzi, 3 ospedali e 15 ambulatori, 19 scuole primarie e 3 scuole secondarie … sono solo alcune delle strutture realizzate per fornire i servizi primari ai profughi. Per gestire questa immensa crisi umanitaria sono attualmente mobilitate 4 agenzie delle nazioni unite, 4 agenzie governative, 25 ONG, più altre organizzazioni presenti a vario titolo. Nonostante l’imponente dispiegamento di forze umanitarie la condizione dei profughi rimane critica. Soltanto il 50% dei bambini riesce ad accedere all’istruzione primaria e meno del 30% a quella secondaria. Il tasso di disoccupazione è del 98%. Le strutture sanitarie stentano a far fronte alle richieste di assistenza. Le razioni alimentari distribuite due volte al mese e fissate secondo gli standard minimi di 2100 calorie al giorno, a causa del numero di profughi si sono progressivamente ridotte e nel 2010 sono state quasi dimezzate. Malgrado i 220 agenti di polizia la sicurezza è un problema grave. Le donne alla ricerca di legna da ardere sono costrette ad allontanarsi sempre di più dalle loro case e sono esposte a rapimenti e stupri, eventi che si verificano con preoccupante frequenza. Ai profughi non è permesso allontanarsi dai confini dei campi, delimitati da reti e filo spinato. Al massimo possono spostarsi da un campo all’altro esibendo un pass identificativo e avvalendosi degli autobus che svolgono un servizio di trasporto. Il risultato è che molti somali sono all’interno dei campi da vent’anni, senza lavoro né altre occupazioni, sopravvivendo solo grazie agli aiuti distribuiti dalle varie organizzazioni umanitarie. E quel che è peggio, ci sono migliaia di bambini nati nei campi che non conoscono altra realtà che quella di profugo.




I primi arrivati nei campi sono stati alloggiati in baracche di legno e lamiera, ma da molti anni ormai i profughi per avere un alloggio sono costretti a costruirsi i propri “aqal” (tradizionali capanne nomadi a forma di cupola) con i materiali che riescono a procurarsi nei campi, soprattutto stracci, i sacchi vuoti degli aiuti e pezzi di teloni plastici. A peggiorare la situazione nel 2011 si è verificata in tutto il corno d’Africa la peggiore siccità degli ultimi sessant’anni. I somali in fuga dalla guerra e dalla carestia arrivano a gruppi di mille al giorno. Ad oggi i campi sono arrivati ad ospitare quattrocentomila persone, ed entro la fine dell’anno supereranno le quattrocentocinquantamila presenze. Dadaab è diventato il campo profughi più grande del mondo. E’ pronto ormai da mesi il quarto campo di Dadaab, IFO II, ma alcune resistenze del governo keniano ne ritardano l’apertura. Il governo keniano è contrario a migliorare il livello dell’assistenza, perché i profughi possono essere incentivati a stabilirsi nei campi. La realtà dei fatti è che fino a che il conflitto somalo proseguirà, i profughi non potranno tornare in patria e dopo vent’anni si sono già stabiliti a vivere a Dadaab con le loro famiglie. Il grande interrogativo che le organizzazioni coinvolte si pongono è quando finisce lo stato di emergenza e deve iniziare l’aiuto allo sviluppo di una comunità? Questo non è però il solo quesito. Durante la siccità e la carestia, e quella del 2011 non è stata l’unica dal 1991, fuori dai campi ci sono centinaia di migliaia di somali keniani che vivono infinitamente peggio dei somali rifugiati, ai quali è garantita una seppur misera sopravvivenza. Per chi muore di fame ma non può beneficiare dello status di rifugiato non vale l’emergenza umanitaria? Non è difficile immaginare che tra i rifugiati che giungono a chiedere asilo nei campi ci siano molti somali del Kenya, in cerca di acqua e cibo per se e per le loro famiglie. La carestia, che in tre mesi si stima abbia ucciso quasi trentamila bambini, ha concentrato l’attenzione del mondo su questo angolo d’Africa. Tra poco essa non sarà più una notizia e calerà nuovamente l’oblio mediatico su Dadaab e sulla tragedia dei somali.

venerdì 3 giugno 2011

Grannies Project - May 2011 Report

Here follows a brief report concerning activities carried out in Wajir Grannies Project in May 2011:


Cash hand outs – During this period each granny has received Ksh 400 to buy some basic needs.


Food ration distribution – Every granny has each received four (4) kilogram of rice during the month may.


Shelter renovation – Four (4) huts were repaired during this reporting period and twenty (20) grannies were given each one grass mat to repair their huts.


Small table business – three table businesses were started during the month of May 2011.


Local goat farming- Ten (10) grannies have benefited from local goat farming. The project worker and a male granny goes to the market and buys local goats and they are given to the selected grannies it the projects compound. Afterwards the projects fieldwork representative goes out to monitor the farming.
Local chicken rearing – Five (5) grannies have during the month of May 2011; have been bought each two (2) local chickens. The project has a poultry house in its compound and is rearing chicken. Later the chickens are given to the grannies after they have built a small poultry house in their compounds. Due to high demand of poultry products most of the grannies are interested and willing to have each two or more chickens. Currently there are thirty six (36) chickens and five (5) chicks (6days old) in projects’ poultry house. The chickens are and will be fed by the grannies assisted by the project workers. Future plans are that when the poultry house will be complete (before mid June, 2011), and the estimated number of chickens bought; their products (eggs and chicks) will be used to benefit the grannies by either selling them or giving to the grannies.


Fire wood selling – For the month of May two grannies benefited by firewood business which was started in the compounds


venerdì 2 gennaio 2009

Passaggio a Nord-Est

Ci sono tanti modi di viaggiare, ed ognuno sceglie quello a sé più consono. La Terra è diventata improvvisamente molto piccola e praticamente tutti possono arrivare in qualunque luogo in tempi ragionevolmente brevi. Ciò che però rimane ristretto a pochi è la consapevolezza che in certi casi il viaggio per raggiungere un luogo può essere più significativo del luogo stesso.
Il trasporto aereo consente di coprire grandi distanze nell’arco di poche ore e rende il viaggio una formalità da chiudere il più velocemente possibile. Per certe località questo non è possibile semplicemente perchè non esistono voli di linea e noleggiare un aereo rimane un’opzione fuori della portata di budget “popolari”.
Ecco che allora si è costretti a percorrere lunghissime distanze con mezzi pubblici sprecando intere giornate in spostamenti di poche centinaia di chilometri, e questo può scoraggiare molti.
Ciò può però divenire l’occasione di mescolarsi con la cultura locale e di vedere scorrere davanti ai propri occhi il paesaggio, apprezzandone i mutamenti e avvertendo fisicamente la sensazione delle distanze coperte.

E’ questo il caso del tragitto verso il nord-est del Kenya, percorrendo la strada e poi la pista che da Nairobi conduce a Wajir.
I preparativi sono già all’altezza di ciò che il viaggio riserverà. Tutte le compagnie di autobus infatti che coprono questa tratta si trovano e partono dal quartiere “Eastleigh” di Nairobi, un quartiere malfamato e abitato quasi esclusivamente da somali. Discariche in fiamme, voragini in mezzo alle strade, sguardi poco rassicuranti che si incrociano ovunque, donne completamente velate e uomini in tuniche bianche costituiscono il comitato di benvenuto in questa zona della capitale keniana.


Un’informazione essenziale per chi debba salire sopra uno di questi autobus è la seguente: è vitale sedersi nei sedili anteriori e quindi prenotare con largo anticipo. Se, come è capitato a noi, dovesse succedere di trovare disponibili solamente i sedili posteriori, è consigliabile cambiare la data della partenza e trovare posto su un autobus più libero.
La pena per aver infranto questa legge così banale e di dominio comune tra i viaggiatori abituali, è una tortura fisica di proporzioni inimmaginabili. Se chi siede davanti avverte le buche nella strada come un fastidioso inconveniente, chi siede negli ultimi sedili dell’autobus dovrà trascorrere tutte le dodici ore del viaggio ancorandosi saldamente a maniglie e sostegni oppure alzandosi in piedi all’approssimarsi di ogni asperità. Gli scossoni proiettano gli sventurati dei sedili posteriori l’uno contro l’altro, si fanno salti di oltre un metro per poi venire sbattuti violentemente verso il basso, le teste cozzano con forza sul soffitto dell’autobus. E’ un supplizio difficilmente descrivibile di eterna durata.
La prima metà del viaggio copre il tratto Nairobi - Garissa ed è (abbastanza) asfaltata. Lungo la strada scorrono immense piantagioni di ananas, moderne serre e sparuti baobab. I lineamenti della gente che si scorge lungo la strada cambiano progressivamente dai marcati tratti bantu ai più fini tratti nilotici dei somali, mentre le casette e le capanne dai tetti ai punta dei villaggi keniani lasciano il posto alle semplici capanne somale a forma di cupola.
A Garissa termina la strada asfaltata e iniziano le piste sabbiose che conducono verso il nord-est e, dopo aver superato l’equatore, a Wajir. Il paesaggio cambia bruscamente e diventa semidesertico, le acacie spinose sono la specie arborea predominante ed assieme ai secchi cespugli rimangono le sole a sfidare l’arida distesa sabbiosa. Il sole riverbera sulla superficie biancastra del terreno e la polvere e la sabbia che si alzano al passaggio degli automezzi penetrano attraverso gli sconnessi finestrini. Le condizioni di viaggio diventano oggettivamente dure.


Ciò che lascia sbalorditi e che questo ambiente così inospitale ed estremo si rivela ricco di vita. Le mandrie di capre e zebù si affiancano ai carretti trainati dagli asini ed alle colonne di dromedari che i nomadi somali spostano in continuazione nel “bush” alla ricerca di acqua e di cibo. I villaggi provvisori dei pastori somali spuntano ovunque ed a distanze enormi l‘uno dall’altro. I pastori si aggirano in questa regione accompagnati dai membri del proprio clan, montando e smontando le capanne trasportate a dorso di dromedario. E’ uno stile di vita imprescindibile dalla cultura somala, che preferisce abbandonare chi non può aderirvi come anziani, disabili e donne non in grado di percorrere lunghe distanze a piedi piuttosto che rinunciare al nomadismo.
Ma non è solo la componente umana ad animare il paesaggio riarso dal sole. Prestando attenzione è possibile scorgere facoceri, giraffe, gazzelle di Grant, orici, gerenuk, dik dik e struzzi. Come tutti questi animali possano sopravvivere in questo ambiente pare un mistero.
In certi tratti la vegetazione scompare completamente e ci si ritrova completamente in mezzo al deserto, e l’autobus prosegue spedito sbandando di tanto in tanto tra dune e i solchi scavati dai trasporti precedenti. Una riflessione a parte andrebbe rivolta alla tenuta di questi sgangheratissimi mezzi, che affrontano questo viaggio assurdo tra buche, dune e temperature torride senza mostrare grosso segni di cedimento. Difficilmente autobus più moderni potrebbero comportarsi meglio dei loro decrepiti e malandati omologhi keniani.

Dopo dodici (o più) ore all’interno di queste traballanti fornaci si giunge finalmente a Wajir, una grande città in mezzo al nulla. Improvvisamente in mezzo al deserto compaiono edifici in muratura, ripetitori per le telecomunicazioni, banche e distributori di benzina. Ad una distanza di quasi mille chilometri da Nairobi compare di nuovo la civiltà. Non si tratta però esattamente di un’oasi… ma questa è un’altra storia.

M.L.

sabato 6 settembre 2008

Tra gli Angeli di Wajir

Caldo opprimente, strade sabbiose sulle quali è persino difficile camminare, vegetazione rada e spinosa. Se la vita nei villaggi africani a cui siamo abituati sembra difficile, questa appare addirittura impossibile. Dove questa gente tragga acqua e alimenti è misterioso.
In questo paesaggio riarso dal sole, migliaia di famiglie conducono una vita normale fatta di gesti semplici e quotidiani; non è difficile comprendere come mai la gente del deserto abbia sviluppato un carattere ed un fisico così coriacei.
I somali sono gente dura e orgogliosa, inasprita da un credo fondamentalista e intransigente. Essi popolano fin dai tempi antichi l'intero nord-est del Kenya, regione semi-desertica morfologicamente più simile al nord-Africa che non all'Africa sub-sahariana.
Wajir si trova ad un centinaio di chilometri dal confine somalo, mentre sono almeno trecento i chilometri di pista sabbiosa e strada disagevole che la separano da Nairobi. Questo è uno dei motivi per i quali Wajir possa essere considerata più una città della Somalia meridionale che non del Kenya settentrionale.
Wajir è senz'altro un luogo di frontiera, lontano da ogni rotta del turismo ed evitato dai keniani stessi, nel quale la sfida maggiore è il confronto con una cultura complessa e poco propensa al dialogo.

Avvenimenti tragici accaduti in Somalia durante la nostra permanenza hanno fatto salire la tensione e ci hanno indotto ancor più a prestare attenzione ad ogni nostro minimo gesto.
Essere cattolici in questi luoghi è assai complicato: ogni religione diversa dall'Islam viene guardata con sospetto e col timore che possa minare lo status quo. Diverse chiese sono state cacciate da Wajir, "colpevoli" di essersi prodigate in opere di evangelizzazione e di aver provocato la conversione di qualche somalo. Ciò non è tollerato, e l'espulsione della comunità religiosa viene accompagnata da atti violenti ai danni di tutte le chiese presenti, cattolici compresi. Un crocefisso privato delle braccia sopra l'altare della Chiesa cattolica testimonia quanto sia delicata la presenza dei cattolici a Wajir.
Ci ha ospitati Pina Russo, missionaria laica romana che ha dedicato gli ultimi otto anni della sua vita a favore della comunità locale. In accordo con la diocesi di appartenenza, la diocesi di Garissa (otto ore di autobus da Wajir!), Pina svolge la sua opera di volontariato senza fini di evangelizzazione, con spirito di pura e disinteressata carità. Questo indirizzo, da sempre portato avanti fin dai tempi di Annalena, ha permesso alla Chiesa cattolica di essere ben accetta e accolta con riconoscenza dalla popolazione.
L'importanza del lavoro che viene svolto tra mille difficoltà ogni giorno a Wajir è proprio questa: costruire un ponte di pace e di dialogo con il mondo musulmano, testimoniando con le opere concrete i valori in cui crede la nostra civiltà, evitando le parole e i giudizi che, se espressi con leggerezza, sono in grado di provocare incomprensioni e risentimento.


Forti del favore che i cattolici hanno saputo costruirsi nel corso degli anni, siamo stati accolti da tutti i somali che abbiamo incontrato con grande cordialità e amicizia, addirittura invitati ad entrare nelle capanne e a sedere al loro fianco.
In questo angolo remoto del Kenya nel corso degli anni sono state realizzate con successo diverse strutture: una clinica per la cura della tubercolosi ed un "villaggio" dove i pazienti possono trovare alloggio per la durata della terapia, una scuola per sordomuti, una scuola per giovani ragazze somale, un centro per la riabilitazione dei bambini disabili, un centro di accoglienza per anziani. L'impronta che Annalena (e chi ha lavorato insieme a lei) ha lasciato qui è molto forte, e molte persone incontrate la ricordano con commozione, rispetto e gratitudine.
Ma non sarebbe giusto parlare di Wajir coniugando ogni verbo al passato.Gli anni sono trascorsi, alcune strutture sono state chiuse, altre sono radicalmente cambiate nell'impostazione generale, altre ancora hanno subito vicissitudini pur mantenendo inalterato lo spirito di carità, condivisione e testimonianza.E' questo il caso del Centro di Riabilitazione, un luogo dove ancora oggi vengono compiuti piccoli miracoli quotidiani.



Nella società somala si riscontra uno dei più alti tassi di disabilità infantile registrabili in qualunque altra parte dell'Africa. Numerose sono le motivazioni: denutrizione, consanguineità, mutilazioni genitali, mancanza di assistenza sanitaria al parto. Quattro figli di cui tre ciechi, tre figli con malformazioni alle gambe… sono solo esempi di situazioni reali di famiglie che abbiamo visitato insieme ai volontari del Centro di Riabilitazione. Oggi l'attività del Centro è portata avanti infatti da giovani volontari kenyani che hanno maturato competenze in ambito ortopedico, infermieristico, fisioterapico. Joseph, Viola, Betty, Fatuma, Rose e Joel seguono e svolgono riabilitazione quotidiana nel Centro a numerosi bambini, visitano nei villaggi di appartenenza quelle famiglie che non sono in grado di portare i loro figli fino a Wajir, costruiscono attrezzature per la deambulazione, distribuiscono alimenti alle famiglie che non sono in grado di procurarseli, somministrano medicinali a bambini che altrimenti morirebbero di banali malattie. Questi ragazzi, senza fondi che non provengano da donazioni di privati, lavorano volontariamente in una maniera estremamente professionale, riempiendo di amore e compassione ogni loro atto. Pina poi assicura al Centro di Riabilitazione una preziosissima opera di coordinamento e supervisione.
Siamo stati testimoni di drammatiche realtà alle quali era difficile anche solo assistere come osservatori. Il lavoro di questi volontari ci ha colpiti profondamente, e l'impegno che ci siamo presi è quello di realizzare un libro fotografico con la vendita del quale contribuire a sostenere il loro operato.
Ciò che è stato realizzato a Wajir in passato è miracoloso. Ma la sabbia del deserto ed il tempo rischiano di cancellare ogni cosa. In quei luoghi i bisogni sono ancora tantissimi e chi opera ogni giorno per farvi fronte va sostenuto con impegno e costanza, perché nulla di ciò che è stato e che ancora vive vada perduto.
(testo scritto nell'Ottobre 2006)

M.L.