Si è investiti immediatamente
dai problemi della gente di Wajir , non è necessario un tempo lungo
per comprenderli. Da anni non piove in maniera significativa,
l'acqua è una risorsa scarsa e quindi molto preziosa. Trovare il
cibo con cui sfamarsi, per la maggioranza somala della popolazione, è
una lotta quotidiana che non sempre viene vinta. Non c'è lavoro e
quindi fonti di reddito. "Ninasukuma maisha" - racconta
Bilai "trascino la vita come posso". L'istruzione è la
strada più efficace per cambiare il corso della vita di sé e della
propria famiglia. Purtroppo il circolo vizioso della povertà la
rende inaccessibile per molti, troppi. Coloro che riescono a trovare
i soldi per frequentare la scuola sono costretti a sedersi sulla
sabbia fissando una lavagna appoggiata ad un albero, perché le
scuole hanno un tragico problema di infrastrutture. L'istruzione
pubblica è scarsa, quella privata è molto costosa. Un enorme numero
di diversamente abili cerca un posto nella società. Questa parte
incredibilmente grande della popolazione è alimentata dalla
malnutrizione delle madri, dalle mutilazioni genitali femminili,
dalla consanguineità.
Gli anziani non
autosufficienti sono una zavorra della quale le famiglie faticano a
farsi carico; per questo molti sono abbandonati a sé stessi, soli a
fare i conti con la propria fame e sete.
La vastità di questi problemi
è schiacciante e una disperata impotenza si impadronisce di noi, al
nostro arrivo. Eppure una piccola luce di speranza viaggia con noi
grazie alla diocesi di Forli-Bertinoro, alle persone e
alle associazioni che formano il Coordinamento Diocesano per Wajir e
che rappresentiamo in questo viaggio. Il coordinamento è ispirato
dalle opere sante di Annalena e guidato dalla memoria di Don Mino.
Sono trascorsi tre anni dall'ultima visita a Wajir e i frutti di ciò
che è stato realizzato attenuano il senso di impotenza e ci spingono
a continuare la nostra testimonianza di fraternità. I pozzi scavati
donano acqua a tante famiglie, che ringraziano commosse per il dono
ricevuto. Le aule della scuola primaria e dell'asilo parrocchiale
ospitano tanti bambini che ora hanno l'opportunità di studiare in un
ambiente dignitoso. Il sostegno a distanza rivolto a decine di
ragazzi che vivono nel bisogno è la speranza per le loro famiglie,
ma soprattutto è l'orgoglio di genitori che vedono davanti ai loro
figli un futuro sicuro. L'assistenza portata dalle suore del centro
di riabilitazione e dalle scuole - primaria e secondaria - per sordi
rappresenta una fondamentale opportunità di emancipazione e crescita
personale per centinaia di bambini diversamente abili.
Il progetto di contrasto agli
effetti della siccità che ha portato alla distribuzione di venti
sistemi di irrigazione ci impressiona per i suoi risultati. Là dove
tutto è sabbia riarsa dal sole, compaiono appezzamenti verdi e
rigogliosi, dove gli agricoltori possono produrre cibo per le
famiglie e per il bestiame. Le distribuzioni di alimenti condotte nel
corso di questo lungo periodo di carestia hanno permesso di
sopravvivere a tanti indigenti, soprattutto anziani non
autosufficienti. La visita alle famiglie dei più poveri che i
volontari della parrocchia conducono rappresenta un momento
indispensabile di relazione e di incontro.
Abbiamo la sensazione che la
strada sia quella giusta. Si è formato un gruppo di lavoro in Italia
ed è nato un gruppo di lavoro a Wajir per amministrare e garantire
le opere che pensiamo insieme. I problemi sono schiaccianti ma
intendiamo camminare insieme a queste persone per alleviare le loro
sofferenze all'insegna del volto più luminoso della Carità
cristiana, quello che ci hanno mostrato Annalena e Don Mino.
Nel 2011, la Somalia ha vissuto una devastante carestia che ha ucciso
oltre un quarto di milione di persone, metà delle quali bambini di
età inferiore ai cinque anni. La comunità internazionale non è
riuscita ad agire in tempo, nonostante i ripetuti avvertimenti della
crisi imminente.
Poco più di un decennio dopo, i leader mondiali agiscono ancora una
volta tardi e in misura insufficiente per scongiurare la carestia
catastrofica che si è abbattuta in Africa orientale.
L'attuale crisi nel Corno d'Africa va avanti da più di due anni. La
siccità indotta dal repentino cambiamento climatico si è abbattuta
con una crescente intensità negli ultimi dieci anni.
Eppure, la regione è una delle meno responsabili della crisi
climatica, emettendo lo 0,1% delle emissioni globali di carbonio.
Quasi la metà del bestiame nell'Africa orientale è morta. Il numero
di persone che affrontano la fame estrema in Etiopia, Kenya e Somalia
è più che raddoppiato rispetto allo scorso anno, da oltre 10
milioni a oltre 23 milioni di oggi.
Questo lunghissimo periodo di siccità è stato interrotto solamente
da brevi precipitazioni di entità estrema, scatenando alluvioni che
hanno reso ancor più difficile la vita delle persone senza
permettere un utilizzo graduale e prolungato dell’acqua.
In Kenya la siccità ha causato un calo del 70% della produzione
agricola e 3,5 milioni di persone affrontano una fame acuta. Il
conflitto in Ucraina ha peggiorato ulteriormente la situazione,
portando i prezzi dei generi alimentari, già in aumento, al livello
più alto mai registrato, rendendo il cibo irraggiungibile per
milioni di persone.
Il coordinamento diocesano per Wajir mantiene i riflettori accesi su
ciò che accade in questa regione, rimanendo aggiornato in tempo
reale dalle realtà caritatevoli locali che sostiene da molto tempo.
Nella contea di Wajir, nell’estremo nord-est del paese al confine
con la Somalia, vivono quasi 800.000 persone, il 94% delle quali vive
in povertà estrema. Da alcune settimane riceviamo notizia di bambini
ricoverati negli ospedali in grave stato di malnutrizione. Molti di
loro purtroppo non ce l’hanno fatta. Il coordinamento diocesano
continua ad aiutare la popolazione di Wajir attraverso azioni a breve
e medio termine. Siamo impegnati a far fronte alle necessità
contingenti di tanti beneficiari che hanno necessità immediata di
cibo ed acqua. Attraverso azioni mirate all’incremento delle
produzioni agricole e della capacità di stoccaggio di acqua tentiamo
inoltre di aumentare la capacità di adattamento della popolazione
alla siccità, che è divenuta ormai una condizione costante nel
Corno d’Africa.
[I padri della Consolata di
Garissa] sono venuti per scelta, per mettersi a servizio di questa gente nomade
e poverissima, ma a servizio vero, per crescere con loro: istruzione, tentativo
di aiutarli a diventare uomini veri, con una loro dignità, una loro possibilità
di crescere da soli, di progredire, cosa, oggi, impossibile perché mancano i
leader preparati. Il progetto è stato calorosamente approvato quando i padri
hanno messo ben in chiaro che non solo non si farà proselitismo di alcun genere
ma che i ragazzi… saranno mandati alla scuola locale dove tra l’altro sarà loro
insegnato il Corano e, meraviglia di tutte le meraviglie, che l’orfanotrofio
sarà aperto al loro prete o insegnante di religione musulmano tutte le volte
che vorrà venire e sarà chiuso invece a qualunque prete o insegnante di
religione cattolica o cristiana che voglia andare a “evangelizzare”.
La Luna (28/10/72)
La Luna ha un profondo valore
simbolico nel mondo religioso musulmano e in quello di tutti i popoli del
deserto. Tutta la vita del musulmano si regola sulle fasi lunari: il tempo, gli
anni, i mesi, le settimane, il Ramadan (il mese di digiuno), le grandi feste
religiose, le cerimonie liturgiche… il nomade ama moltissimo la luna e dice che
è buona e bella. Come è vero, sempre più vero, che il conforto viene alla fine
sempre e solo dalla donna e non dall’uomo…
La moschea (11/06/73)
Da un po' di tempo abbiamo
cominciato anche la costruzione di una moschea; i ragazzi indubbiamente
purtroppo sono dei velleitari ma fin da quando sono venuta desideravano tanto
avere una moschea, di queste fatte così, di rami, ma belle però, eleganti e poi
invece praticamente chi fa la moschea sono io che procuro i pali, che procuro
l’aiuto nel lavoro, tutte le idee, il luogo in cui farla. Comunque già io pregusto il
giorno in cui la moschea sarà pronta… dentro metterò delle stuoie, spero che i
ragazzi possano pregare di più , pregano così poco; la gioventù si allontana
completamente dalla religione ma non perché ne ha trovata un’altra più valida
più forte più robusta, no purtroppo, la gioventù si allontana dalla religione
solo perché la sta perdendo, solo perché ai suoi valori religiosi sostituisce
altri valori, valori che ubriacano questi giovani, che fanno perdere loro la
testa e non sono valori perché sono il denaro, perché sono la popolarità, il
successo.
La sepoltura di Mohamed (7/12/78)
(Parlando della sepoltura di
Mohamed, guardiano ed aiutante ucciso nel corso di un tentativo di rapina al
compound di Annalena. Annalena è dispiaciuta perché il corpo non è stato
sepolto secondo la tradizione musulmana, avvolto in un lenzuolo bianco, ma ha ricevuto
un funerale cristiano con una bara)
Mohamed io lo volevo a Wajir.
Sognavo per lui un funerale degno del suo martirio, una tomba col muretto alto…
una tomba col suo nome, con un’iscrizione in arabico… nel nome di Dio
onnipotente e misericordioso… volevo un luogo a cui poter tornare… Dio ha
voluto diversamente. Volontà di dio. Sia fatta la volontà di Dio. Ed è Dio che
ha voluto che Mohamed fosse sepolto come qualunque buon cristiano di questo
mondo, lui che cristiano lo era diventato profondamente nello spirito, lui che
aveva imparato da me le leggi dell’amore, lui che serviva i malati come me e
meglio di me, e mai per mestiere, sempre perché gli scaturiva dal cuore; e
quando mi vedeva più preoccupata del solito per qualcuno di quei corpi minati
moltiplicava i suoi sforzi per aiutarli, incoraggiarli, tradurre loro qualunque
cosa io dicessi, precedendomi nel servirli perché io non mi stancassi troppo.
Mohamed oggi è in Dio. Non posso non esserne felice.
Giobbe è “nostro” ma anche “loro” (25/11/79)
La tragedia è che l’Islam non
insegna il comandamento dell’amore e dire che questi musulmani sono splendidi
nella loro potenza di adorazione, pregano continuamente, piegano le ginocchia e
la testa nel nome di Dio, hanno le lodi a Dio continuamente sulla loro bocca,
la certezza incrollabile nel cuore e nello spirito che tutto avviene per volontà
di Dio e che tutto va bene, va sempre tutto bene perché Lui sa ed è solo Lui
che guida uomini ed eventi… dunque tutto è Grazia! Proprio come noi… Giobbe
potrebbe essere “loro” nella stessa misura in cui è sicuramente nostro. Tutti i
suoi beni sono distrutti, le sue ricchezze depredate, tutti i suoi dipendenti e
i suoi servi uccisi, i suoi figli e le sue figlie morti sepolti sotto le
macerie della loro casa… “Allora Giobbe si alzò e si stracciò la veste, si rase
il capo, cadde a terra e adorò, e disse: Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo
vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; come piacque al Signore
così è avvenuto: sia benedetto il nome del Signore! Se da Dio accettiamo il
bene, perché non dovremmo accettare il male?”.
Il canto del Muezzin (14/12/79)
Carissima mamma, è mattino
presto. Fuori c’è un cielo incantato di stelle e un filo argentato di luna che
fa tremare il cuore in petto. Era tutto quieto. Ma adesso un uomo si è messo a
cantare, chiama gli altri alla preghiera, altissimo il tono della voce, ma
pacato, vasto e lento il suo cantilenare: nel nome di Dio onnipotente e
misericordioso, alzatevi o fratelli, è tempo di lodare Dio. Non indugiate,
alzatevi, Dio chiama… è ogni volta un’emozione intensa, ogni giorno come un’esperienza
nuova, bellissima, toccante, liberante, purificante… e mentre prego perché questa
fede così divinamente rocciosa possa un giorno essere illuminata e penetrata
dal sole di Gesù Cristo, prego anche intensamente perché questa fede sia
conservata a questo popolo.
Volunteers of Wajir Grannies Centre - DCCG (John, Patrick, Habiba) have remained the only
representatives of the Catholic community to visit families in the villages. Once this activity was a practice for the
Rehabilitation Centre, which carried out community based rehabilitation for
children who could not go to the Centre. Today this does not happen
anymore. "Reasons for security" is reported to
me by the Camillian sisters. Honestly, I can not blame them. I accompanied the volunteers to visit the elders
registered in the centre (over two hundred) in the villages of Alimaow, Gutut,
Jogoo, Hodhan, Wagberi. I understood in person the importance of going
to meet the poor at their home. It was essential that I’ve been introduced by
the DCCG team. Very few whites are seen in town (in the week
I've been there I've never met one) and in the villages nobody ever. I was the first white child that many children
met in their life. Somali culture is very diffident and closed
towards foreigners: the company of the volunteers of the centre has instead
generated joy and welcome and wide-open smiles everywhere. This is the legacy of Sister Teresanna's thirty
years of service to the aged. Taking pictures was not a problem and even the
access inside the “tucul“ (the small dome-shaped huts of the Somalis) was
allowed friendly. I also seated and I was offered Somali tea filled
with goat's milk. All this in other circumstances would have been
difficult for a foreigner and even impossible for a white man. The volunteers of the DCCG Centre are the
ambassadors of the Christian community in the villages. The Charity that they practice constantly allows
all Catholics to be accepted and to live in peace in Wajir. Many grannies registered at the Centre are
unable to walk. It is therefore important to meet relatives or those
who come to collect the medicines, foods and other basic necessities that are
distributed. Entering the small enclosures built with low
thorny bushes planted on the sand allows us to understand how the grannies
family is composed. In general, only women and children are
encountered, since men, when they exist, are generally looking for a job or in
the bush with dromedaries and zebu. I have found that there is never more than one
salary (often occasional) every ten to fifteen people. The interior of the huts is very poor. Two or three beds are laid out on the sand,
often without a mattress. Some objects hang from the branches that make up
the supporting skeleton. There are no ornaments - besides there are no
furniture - nor decorative objects. The heat is more or less suffocating depending
on the roof material of the hut: acceptable if covered with straw mats,
unbearable if in plastic sheets or even pieces of sheet metal. During the visits we met some success stories
occurred in the many attempts to offer opportunities to generate income for
grannies. Some goats distributed have become small herds,
simple business tables transformed into real shops. Meeting families is also an opportunity to
verify a disheartening fact: many children do not attend school. Indeed, it seems that the choice whether to go
to school or not is entrusted to the children themselves. A decisive intervention in this sense should be
a future development of the Centre's activities. During the visits to the villages, the aged
became the pretext to get to know many aspects of culture, families and Somali
society. Looking for grannies you end up meeting two
equally vulnerable categories such as children and women. Together they are engaged in the daily struggle
for survival and our goal is to help them find dignity and humanity even in
such difficult lives.
I volontari
del Centro per Anziani di Wajir – DCCG (John, Patrick, Habiba) sono rimasti gli
unici rappresentanti della comunità cattolica a visitare le famiglie nei
villaggi. Un tempo questa attività era una prassi per il Centro di
Riabilitazione, che svolgeva riabilitazione su base comunitaria a favore dei
bambini che non potevano recarsi al Centro. Oggi ciò non avviene più. “Motivi
di sicurezza” mi viene riferito dalle suore camilliane. In tutta sincerità non
riesco a biasimarle.
Ho
accompagnato i volontari nella visita degli anziani registrati al centro (oltre
duecento) nei villaggi di Alimaow, Gutut, Jogoo, Hodhan, Wagberi. Ho compreso
di persona l’importanza di andare a incontrare i poveri a casa loro. È stato
fondamentale che io mi presentassi insieme all’equipe del DCCG. Si vedono
pochissimi bianchi in città (nella settimana in cui ci sono stato non ne ho mai
incontrato uno) e nei villaggi mai nessuno. Ero il primo bianco che molti
bambini incontravano in vita loro. La cultura somala è molto diffidente e
chiusa nei confronti degli stranieri: la compagnia dei volontari del centro
invece ha generato gioia ed accoglienza e spalancato ovunque enormi sorrisi.
Questa è l’eredità dei trent’anni di servizio agli anziani di Suor Teresanna.
Scattare foto non è stato un problema e anche l’accesso all’interno dei tucul
(le piccole capanna a forma di cupola dei somali) veniva permesso di buon
grado. In diverse circostanze sono stato fatto sedere e mi è stato offerto del
tè somalo allungato con latte di capra. Tutto questo in altre circostanze
sarebbe stato difficile per uno straniero e addirittura impossibile per un
bianco.
I volontari del
Centro DCCG sono gli ambasciatori della comunità cristiana nei villaggi. La
Carità che praticano costantemente permette a tutti i cattolici di venire
accettati e di vivere in pace a Wajir.
Molti anziani
registrati al Centro non sono in grado di camminare. È quindi importante
incontrare i parenti o i conoscenti che vengono in loro vece a ritirare i
medicinali, gli alimenti e gli altri generi di prima necessità che vengono
distribuiti.
Entrare nei
piccoli recinti costruiti con bassi cespugli spinosi piantati sulla sabbia
permette di capire come è composta la famiglia di cui gli anziani beneficiari
fanno parte. In genere si incontrano solo donne e bambini, dal momento che gli
uomini, quando esistono, sono generalmente in giro alla ricerca di
un’occupazione o nel bush con i dromedari e gli zebù. Ho potuto constatare che
non è mai disponibile più di uno stipendio (spesso saltuario in realtà) ogni
dieci-quindici persone.
L’interno
delle capanne è poverissimo. Sono disposti sulla sabbia due o tre letti, spesso
senza materasso. Alcuni oggetti sono appesi ai rami che costituiscono lo
scheletro di sostegno. Non esistono soprammobili – del resto non ci sono mobili
- né oggetti decorativi. Il caldo è più o meno soffocante a seconda della
copertura della capanna: accettabile se coperta con stuoie di paglia,
insopportabile se in teli in plastica o addirittura pezzi di lamiera.
Nel corso
delle visite abbiamo incontrato alcune storie di successo occorse nei molti
tentativi
di offrire opportunità di generare reddito. Alcune capre distribuite
sono divenute piccole greggi, semplici tavolini per la vendita di prodotti di
uso comune trasformati in veri e propri negozi.
L’incontro
dei nuclei famigliari è l’occasione anche per verificare un dato sconfortante:
tantissimi bambini non frequentano la scuola. Sembra anzi che la scelta se
andare a scuola o meno sia affidata ai bambini stessi. Un deciso intervento in
questo senso dovrebbe essere un futuro sviluppo delle attività del Centro.
L’anziano,
nel corso delle visite nei villaggi, è divenuto il pretesto per conoscere tanti
aspetti della cultura, delle famiglie, della società somala. Cercando gli
anziani si finisce per incontrare due categorie altrettanto vulnerabili come i
bambini e le donne. Insieme sono impegnati nella lotta quotidiana per la
sopravvivenza ed il nostro obbiettivo è di aiutarli a trovare la dignità e
l’umanità anche in esistenze così difficili. ML
I recently met in Nairobi the team of Wajir Day Care Centre that is
voluntary running the
project since 2008. The meeting was held in the Kenyan
capital city because in Wajir (located few kilometers from Somalia borders)
is not guaranteed the minimum security standard. The purpose of the meeting was
to plan the intervention of distribution of food during the drought and famine
expected in the coming months. I could listen to the stories of John, Patrick
and Father Alfred about the current situation and the perspective doesn’t seem
encouraging. Kenya is continuously shaken by Al-Shabaab’s attacks and massacres.
Over the last six months there have been the massacre of students at the
University of Garissa (147 victims), the bloodshed of
Ho
recentemente incontrato a Nairobi i responsabili del centro per anziani di
Wajir che VolontariA sostiene dal 2008. L’incontro si è svolto nella capitale keniana
perché a Wajir
(situata a pochi chilometri dal confino con la Somalia) non sono
garantite le condizioni minime di sicurezza. Lo scopo dell’incontro era di
programmare l’intervento di distribuzione di generi alimentari durante il
periodo di siccità e carestia previsto nei prossimi mesi. Ho potuto ascoltare i
racconti di John, Patrick e Padre Alfred in merito alla situazione attuale e le
prospettive non sembrano per nulla incoraggianti. Il Kenya è continuamente
sconvolto da attentati e massacri da parte dei terroristi Al-Shabaab
provenienti dalla Somalia. Negli ultimi sei mesi sono avvenuti il massacro di
studenti all’università di Garissa (147morti), la strage di non-musulmani su un
autobus (28 morti) e
A dieci anni esatti dalla morte di Annalena l'UNHCR pubblica un nuovo video che ripercorre le tappe della sua vita attraverso filmati originali e interviste a persone che l'hanno incontrata nel corso della sua opera missionaria in Kenya e Somalia. Un video emozionante che ci racconta la storia di un gigante del nostro tempo, la cui importanza è riconosciuta con chiarezza in giro per il mondo ma che al contrario in Italia non ha (ancora) ricevuto il tributo che merita.
Nella
settimana di avvicinamento ad un grande evento di Pace come la Marcia della
Pace della Romagna e mentre è in corso un immane atto di violenza, l’attacco
dei terroristi Shaabab ad un centro commerciale di Nairobi, non riesco a non
pensare a chi ogni giorno della propria vita desidera ardentemente l’uno e si
trova costantemente a vivere l’altro.
Nella
nostra società parlare di Pace in molti casi significa dissertare di argomenti astratti
e filosofici, mentre al mondo ci sono persone per cui questo valore ha un
significato ben preciso e concreto. E in questo senso nei nostri cuori la
popolazione di Wajir occupa senz’altro il primo posto. Un popolo duro che si è
scelto leggi severe e che vive in un ambiente ostile. Un popolo che a causa dei
conflitti è ancora costretto a fronteggiare i nemici atavici dell’umanità: la
fame, la carestia, l’analfabetismo e la malattia.
I
conflitti interclanici che da sempre martirizzano le genti somale
Abdu Jeylani Marshale era un comico radiofonico
molto conosciuto in Somalia. E’ stato ucciso il 6 agosto mentre tornava a casa,
giustiziato con un colpo alla nuca ed uno al torace.
Ahmed Ado Anshur era il conduttore di un talk
show serale molto popolare. E’ caduto in un agguato di miliziani mentre si
recava al lavoro, nella sede della radio a Mogadiscio.
Questi in ordine cronologico sono gli ultimi due
operatori di Radio Shabelle a trovare la morte a causa del loro lavoro.
Da quando Radio Shabelle è stata fondata, nel
2002, dieci suoi collaboratori sono stati barbaramente uccisi. Tra questi anche
due suoi direttori hanno perso la vita.
I motivi, se mai un omicidio può trovare una
giustificazione, sono il dissenso verso le milizie fondamentaliste di Al
Shaabab o le critiche che vengono rivolte al governo di transizione, colpevole
di corruzione e appropriazione degli aiuti umanitari che abbondanti giungono in
Somalia.
Radio Shabelle è l’ultima voce dell’informazione
libera rimasta in Somalia, e come tale viene continuamente sottoposta a
minacce, attentati e ritorsioni.
Abbiamo appena ricevuto da Wajir alcune storie che raccontano il
buon esito raggiunto dalle attività generatrici di reddito promosse tra gli
anziani del Centro. Il tono della comunicazione inviataci è giustamente pieno di
orgoglio. I volontari e gli operatori del Centro Diurno per Anziani di Wajir
stanno lavorando in un contesto durissimo. Alle difficoltà legate alle promozione
di attività agricole e produttive in una zona siccitosa e desertica come quella
di Wajir, si è aggiunto il clima di insicurezza e di violenza derivante dai
continui attentati degli Shabaab, i fondamentalisti somali impegnati senza
sosta a destabilizzare il Kenya.
Queste storie di successo rappresentano motivi di soddisfazione assolutamente fondamentali per andare avanti in condizioni ambientali così complicate.
La prima storia è quella di una nonna del centro, che ad
Agosto 2011 ha beneficiato di una somma per stabilire un piccolo punto vendita
presso il suo quartiere. Le vendite sono andate bene da subito, e la sua
famiglia ha cominciato a beneficiare di una piccola ma costante fonte di
reddito.
Ahmed dice che la loro poesia narra spesso il dramma e la distruzione di clan che, attraversando un deserto, non sono riusciti a raggiungere un pozzo. Queste tragiche spedizioni durano giorni e perfino intere settimane. Per prime muoiono le capre e le pecore: senz’acqua non resistono più di quattro o i giorni. Poi viene il turno dei bambini. “Poi i bambini” dice Ahmed, senza aggiungere altro: né come reagiscano madri e padri, né come si svolgano i funerali. “Poi i bambini” ripete, e tace di nuovo. Fa così caldo che anche parlare è uno sforzo. E’ appena passato mezzogiorno, non si respira. “Poi muoiono le donne” riprende dopo una pausa. “I sopravvissuti non possono fermarsi; se si fermassero per ogni morto non arriverebbero mai al pozzo. Una sola morte se ne porterebbe dietro tutta una serie. Il clan in cammino sparirebbe durante il viaggio e nessuno riuscirebbe più a stabilire dov’è finito.”
[…] “Gli uomini e i cammelli resistono un po’ più a lungo. Un cammello può stare anche tre settimane senza bere, pur continuando a camminare per più di cinquecento chilometri. Per tutto questo tempo le cammelle conserveranno qualche goccia di latte. Queste tre settimane sono l’estremo limite di vita di uomini e cammelli qualora restassero soli al mondo.” “Soli al mondo!” esclamò Ahmed e nella sua voce risuonò lo spavento, poiché l’essere soli al mondo è esattamente quello cheun somalo non riesce ad immaginare. Uomini e cammelli avanzano alla ricerca di un pozzo con l’acqua. Camminano sempre più piano, sempre più a fatica, dato che il terreno che percorrono è costantemente esposto al sole. All’intorno tutto avvampa, brucia, ribolle: pietre, sabbia, aria. “Uomini e cammelli muoiono insieme” disse Ahmed. “Succede quando le mammelle delle cammelle diventano vuote e screpolate e l’uomo non trova più latte. Di solito uomini e animali hanno ancora la forza di trascinarsi fino all’ombra. E così infatti vengono ritrovati dopo morti: all’ombra o dove gli era parso che ce ne fosse”.
[…] “Siamo fatti così” dice: non con rassegnazione, ma con una sfumatura di orgoglio. La natura è qualcosa che è inutile contrastare o tentare di correggere e di cui non ci si libera. La natura è data da Dio, quindi è perfetta, come pure sono perfetti la siccità, le calura, i pozzi prosciugati e la morte durante il cammino. Se non ci fossero non conosceremmo la voluttà della pioggia, il sapore divino dell’acqua e la dolcezza vivificante del latte. Le bestie non godrebbero l’erba succosa, il profumo inebriante dei prati. L’uomo non saprebbe che cosa significhi bagnarsi in un ruscello di acqua e fresca e cristallina. Non si renderebbe conto di che paradiso siano queste cose.
Testo tratto da “Ebano” di Ryszard Kapusckinski. Le fotografie sono state scattate dai ragazzi del Day Care Centre for Grannies di Wajir, e documentano la terribile siccità che sta colpendo il corno d'Africa.
La cittadina di Dadaab è situata nel distretto di Garissa nella provincia nord-orientale del Kenya, a circa cinquecento chilometri da Wajir e un’ottantina di chilometri dal confine somalo. Questa zona è caratterizzata da un ambiente semi-desertico con una rada vegetazione composta da acacie spinose e bassi arbusti e contraddistinto da temperature elevatissime (fino a cinquanta gradi) e scarse precipitazioni. Nel 1991, l’esplosione del conflitto interclanico in Somalia che ha dato il via ad una guerra civile che prosegue tutt’oggi ha provocato un eccezionale flusso di profughi verso il Kenya e verso l’Etiopia. A partire da quell’anno, per accogliere ed in qualche modo contenere l’enorme numero di esuli in fuga, il governo keniano e la comunità internazionale hanno provveduto alla realizzazione di tre campi profughi intorno alla cittadina di Dadaab: Ifo, Dagahaley e Hagadera. In totale questi campi coprono una superficie di circa cinquanta chilometri quadrati e si trovano entro un raggio di diciotto chilometri da Dadaab. I campi sono stati costruiti per accogliere circa novantamila rifugiati.
Il programma dell’UNCHR (alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), l’organizzazione preposta alla gestione dei campi, è sempre stato quello di procedere ad un progressivo rimpatrio dei profughi fino alla chiusura dei campi. Purtroppo la guerra somala ha subito una continua recrudescenza e ha visto l’ingresso in campo di nuovi attori(le corti islamiche Al-Shabaab e l’esercito dell’unione africana), per cui l’arrivo di cittadini somali ai campi keniani è proseguito nel corso degli anni ad un ritmo costante. Alla fine del 2010, i campi di Dadaab erano arrivati ad ospitare trecentomila rifugiati. I campi si sono allargati a dismisura, e le organizzazioni coinvolte hanno dovuto adeguare i campi, inseguendo una continua emergenza, alle esigenze di una popolazione residente in travolgente aumento.43.000 latrine, 16 pozzi, 3 ospedali e15 ambulatori, 19 scuole primarie e 3 scuole secondarie … sono solo alcune delle strutture realizzate per fornire i servizi primari ai profughi. Per gestire questa immensa crisi umanitaria sono attualmente mobilitate 4 agenzie delle nazioni unite, 4 agenzie governative, 25 ONG, più altre organizzazioni presenti a vario titolo. Nonostante l’imponente dispiegamento di forze umanitarie la condizione dei profughi rimane critica. Soltanto il 50% dei bambini riesce ad accedere all’istruzione primaria e meno del 30% a quella secondaria. Il tasso di disoccupazione è del 98%. Le strutture sanitarie stentano a far fronte alle richieste di assistenza. Le razioni alimentari distribuite due volte al mese e fissate secondo gli standard minimi di 2100 calorie al giorno, a causa del numero di profughi si sono progressivamente ridotte e nel 2010 sono state quasi dimezzate. Malgrado i 220 agenti di polizia la sicurezza è un problema grave. Le donne alla ricerca di legna da ardere sono costrette ad allontanarsi sempre di più dalle loro case e sono esposte a rapimenti e stupri, eventi che si verificano con preoccupante frequenza. Ai profughi non è permesso allontanarsi dai confini dei campi, delimitati da reti e filo spinato. Al massimo possono spostarsi da un campo all’altro esibendo un pass identificativo e avvalendosi degli autobus che svolgono un servizio di trasporto. Il risultato è che molti somali sono all’interno dei campi da vent’anni, senza lavoro né altre occupazioni, sopravvivendo solo grazie agli aiuti distribuiti dalle varie organizzazioni umanitarie. E quel che è peggio, ci sono migliaia di bambini nati nei campi che non conoscono altra realtà che quella di profugo.
I primi arrivati nei campi sono stati alloggiati in baracche di legno e lamiera, ma da molti anni ormai i profughi per avere un alloggio sono costretti a costruirsi i propri “aqal” (tradizionali capanne nomadi a forma di cupola) con i materiali che riescono a procurarsi nei campi, soprattutto stracci, i sacchi vuoti degli aiuti e pezzi di teloni plastici. A peggiorare la situazione nel 2011 si è verificata in tutto il corno d’Africa la peggiore siccità degli ultimi sessant’anni. I somali in fuga dalla guerra e dalla carestia arrivano a gruppi di mille al giorno. Ad oggi i campi sono arrivati ad ospitare quattrocentomila persone, ed entro la fine dell’anno supereranno le quattrocentocinquantamila presenze. Dadaab è diventato il campo profughi più grande del mondo. E’ pronto ormai da mesi il quarto campo di Dadaab, IFO II, ma alcune resistenze del governo keniano ne ritardano l’apertura. Il governo keniano è contrario a migliorare il livello dell’assistenza, perché i profughi possono essere incentivati a stabilirsi nei campi. La realtà dei fatti è che fino a che il conflitto somalo proseguirà, i profughi non potranno tornare in patria e dopo vent’anni si sono già stabiliti a vivere a Dadaab con le loro famiglie. Il grande interrogativo che le organizzazioni coinvolte si pongono è quando finisce lo stato di emergenza e deve iniziare l’aiuto allo sviluppo di una comunità? Questo non è però il solo quesito. Durante la siccità e la carestia, e quella del 2011 non è stata l’unica dal 1991, fuori dai campi ci sono centinaia di migliaia di somali keniani che vivono infinitamente peggio dei somali rifugiati, ai quali è garantita una seppur misera sopravvivenza. Per chi muore di fame ma non può beneficiare dello status di rifugiato non vale l’emergenza umanitaria? Non è difficile immaginare che tra i rifugiati che giungono a chiedere asilo nei campi ci siano molti somali del Kenya, in cerca di acqua e cibo per se e per le loro famiglie. La carestia, che in tre mesi si stima abbia ucciso quasi trentamila bambini, ha concentrato l’attenzione del mondo su questo angolo d’Africa. Tra poco essa non sarà più una notizia e calerà nuovamente l’oblio mediatico su Dadaab e sulla tragedia dei somali.
Here follows a brief report concerning activities carried out in Wajir Grannies Project in May 2011:
Cash hand outs – During this period each granny has received Ksh 400 to buy some basic needs.
Food ration distribution – Every granny has each received four (4) kilogram of rice during the month may.
Shelter renovation – Four (4) huts were repaired during this reporting period and twenty (20) grannies were given each one grass mat to repair their huts.
Small table business – three table businesses were started during the month of May 2011.
Local goat farming- Ten (10) grannies have benefited from local goat farming. The project worker and a male granny goes to the market and buys local goats and they are given to the selected grannies it the projects compound. Afterwards the projects fieldwork representative goes out to monitor the farming. Local chicken rearing – Five (5) grannies have during the month of May 2011; have been bought each two (2) local chickens. The project has a poultry house in its compound and is rearing chicken. Later the chickens are given to the grannies after they have built a small poultry house in their compounds. Due to high demand of poultry products most of the grannies are interested and willing to have each two or more chickens. Currently there are thirty six (36) chickens and five (5) chicks (6days old) in projects’ poultry house. The chickens are and will be fed by the grannies assisted by the project workers. Future plans are that when the poultry house will be complete (before mid June, 2011), and the estimated number of chickens bought; their products (eggs and chicks) will be used to benefit the grannies by either selling them or giving to the grannies.
Fire wood selling – For the month of May two grannies benefited by firewood business which was started in the compounds
Day Care Centre for Grannies (DCCG) was founded by Sr. Teresanna Irma Fornasero, a sister for Christian community, in 1985. It is located in Wajir, 730 Km from Nairobi (the capital city of Kenya) and 100 Km from Somali boundary. It is an arid area with scarce rain, pasture and food for human consumption. Due to harsh weather conditions, diseases and famine, the inhabitants who are traditionally nomadic pastoralists have been resolving to a settled lifestyle. They face the challenges of getting reliable and sustainable means of earning their livelihood.
Most of the inhabitants continue to keep livestock as main source of incomes. Due to extreme climatic condition they mustcover long distances in search of water and good pastures. This mostly affects the aged since they are not strong enough to walk for several days. As a result most of the aged get abandoned by their families and relatives hence increasing the number of dependant grannies.
DCCG seeks fund to help them and to create opportunities for the aged of Wajir to participate in their own journey towards self reliance. Due to high level of poverty, large house hold, drought and changing lifestyle, these grannies have been subjected to dependency on relief services and charitable aid. Most of them however find this life of dependency unreliable and unfulfilling.
HIV has greatly contributed to the needs of the aged because a granny is left with a number of orphans to cater for. Afterwards, the dependant population is getting higher. This implies that a lot of resources are used to provide food and water. This situation put a lot of pressure on the resources available for households that could have been used for investment and capital formation. DCCG hence found necessary to help the aged to meet their daily needs. It empowers the aged to attain self reliance through home visits, food ration distribution, cash handouts, provision of health assistance, huts maintenance, provision of shelters.
To allow the aged to reach the self-reliance, DCCG has been mainly focused on income generating activities such as small table businesses, local chicken rearing, firewood selling, goat farming, firewood selling and grass mat weaving. The Centre is currently helping 209 beneficiaries with different degrees of poverty and needs. Decreasing the rate of dependency change the lives of the aged and the one of the whole community. The named activities require less manpower and keep them active hence encouraging self reliance. This is the reason why we are always convinced that the project makes a huge difference in the lives of the aged compared to other areas in this arid land.
Non pretendo di raccontare chi era Annalena Tonelli. Il web è pieno di materiale e chiunque può raccogliere tutte le informazioni che cerca.
Tuttavia questo post ha l'ambizione di colmare una grave lacuna, e cioè la difficilissima reperibilità di contributi video su Annalena. I due filmati che seguono sono Patrimonio Mondiale dell'Umanità più di quanto possano esserlo il centro storico di qualche sperduta cittadina od un monumento costruito mille anni fa.
In entrambi i filmati Annalena parla di sè e del suo lavoro. Non esiste modo migliore di comprendere la sua opera che sentirla raccontata dalla sua voce.
Il primo è un video in inglese disponibile si www.stoptb.org
Il secondo raccoglie alcuni momenti di un evento tenutosi il 30.06.2003 organizzato dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì e dal Comitato per la Lotta contro la Fame nel Mondo.
Ci sono tanti modi di viaggiare, ed ognuno sceglie quello a sé più consono. La Terra è diventata improvvisamente molto piccola e praticamente tutti possono arrivare in qualunque luogo in tempi ragionevolmente brevi. Ciò che però rimane ristretto a pochi è la consapevolezza che in certi casi il viaggio per raggiungere un luogo può essere più significativo del luogo stesso. Il trasporto aereo consente di coprire grandi distanze nell’arco di poche ore e rende il viaggio una formalità da chiudere il più velocemente possibile. Per certe località questo non è possibile semplicemente perchè non esistono voli di linea e noleggiare un aereo rimane un’opzione fuori della portata di budget “popolari”. Ecco che allora si è costretti a percorrere lunghissime distanze con mezzi pubblici sprecando intere giornate in spostamenti di poche centinaia di chilometri, e questo può scoraggiare molti. Ciò può però divenire l’occasione di mescolarsi con la cultura locale e di vedere scorrere davanti ai propri occhi il paesaggio, apprezzandone i mutamenti e avvertendo fisicamente la sensazione delle distanze coperte.
E’ questo il caso del tragitto verso il nord-est del Kenya, percorrendo la strada e poi la pista che da Nairobi conduce a Wajir. I preparativi sono già all’altezza di ciò che il viaggio riserverà. Tutte le compagnie di autobus infatti che coprono questa tratta si trovano e partono dal quartiere “Eastleigh” di Nairobi, un quartiere malfamato e abitato quasi esclusivamente da somali. Discariche in fiamme, voragini in mezzo alle strade, sguardi poco rassicuranti che si incrociano ovunque, donne completamente velate e uomini in tuniche bianche costituiscono il comitato di benvenuto in questa zona della capitale keniana.
Un’informazione essenziale per chi debba salire sopra uno di questi autobus è la seguente: è vitale sedersi nei sedili anteriori e quindi prenotare con largo anticipo. Se, come è capitato a noi, dovesse succedere di trovare disponibili solamente i sedili posteriori, è consigliabile cambiare la data della partenza e trovare posto su un autobus più libero. La pena per aver infranto questa legge così banale e di dominio comune tra i viaggiatori abituali, è una tortura fisica di proporzioni inimmaginabili. Se chi siede davanti avverte le buche nella strada come un fastidioso inconveniente, chi siede negli ultimi sedili dell’autobus dovrà trascorrere tutte le dodici ore del viaggio ancorandosi saldamente a maniglie e sostegni oppure alzandosi in piedi all’approssimarsi di ogni asperità. Gli scossoni proiettano gli sventurati dei sedili posteriori l’uno contro l’altro, si fanno salti di oltre un metro per poi venire sbattuti violentemente verso il basso, le teste cozzano con forza sul soffitto dell’autobus. E’ un supplizio difficilmente descrivibile di eterna durata. La prima metà del viaggio copre il tratto Nairobi - Garissa ed è (abbastanza) asfaltata. Lungo la strada scorrono immense piantagioni di ananas, moderne serre e sparuti baobab. I lineamenti della gente che si scorge lungo la strada cambiano progressivamente dai marcati tratti bantu ai più fini tratti nilotici dei somali, mentre le casette e le capanne dai tetti ai punta dei villaggi keniani lasciano il posto alle semplici capanne somale a forma di cupola. A Garissa termina la strada asfaltata e iniziano le piste sabbiose che conducono verso il nord-est e, dopo aver superato l’equatore, a Wajir. Il paesaggio cambia bruscamente e diventa semidesertico, le acacie spinose sono la specie arborea predominante ed assieme ai secchi cespugli rimangono le sole a sfidare l’arida distesa sabbiosa. Il sole riverbera sulla superficie biancastra del terreno e la polvere e la sabbia che si alzano al passaggio degli automezzi penetrano attraverso gli sconnessi finestrini. Le condizioni di viaggio diventano oggettivamente dure.
Ciò che lascia sbalorditi e che questo ambiente così inospitale ed estremo si rivela ricco di vita. Le mandrie di capre e zebù si affiancano ai carretti trainati dagli asini ed alle colonne di dromedari che i nomadi somali spostano in continuazione nel “bush” alla ricerca di acqua e di cibo. I villaggi provvisori dei pastori somali spuntano ovunque ed a distanze enormi l‘uno dall’altro. I pastori si aggirano in questa regione accompagnati dai membri del proprio clan, montando e smontando le capanne trasportate a dorso di dromedario. E’ uno stile di vita imprescindibile dalla cultura somala, che preferisce abbandonare chi non può aderirvi come anziani, disabili e donne non in grado di percorrere lunghe distanze a piedi piuttosto che rinunciare al nomadismo. Ma non è solo la componente umana ad animare il paesaggio riarso dal sole. Prestando attenzione è possibile scorgere facoceri, giraffe, gazzelle di Grant, orici, gerenuk, dik dik e struzzi. Come tutti questi animali possano sopravvivere in questo ambiente pare un mistero. In certi tratti la vegetazione scompare completamente e ci si ritrova completamente in mezzo al deserto, e l’autobus prosegue spedito sbandando di tanto in tanto tra dune e i solchi scavati dai trasporti precedenti. Una riflessione a parte andrebbe rivolta alla tenuta di questi sgangheratissimi mezzi, che affrontano questo viaggio assurdo tra buche, dune e temperature torride senza mostrare grosso segni di cedimento. Difficilmente autobus più moderni potrebbero comportarsi meglio dei loro decrepiti e malandati omologhi keniani.
Dopo dodici (o più) ore all’interno di queste traballanti fornaci si giunge finalmente a Wajir, una grande città in mezzo al nulla. Improvvisamente in mezzo al deserto compaiono edifici in muratura, ripetitori per le telecomunicazioni, banche e distributori di benzina. Ad una distanza di quasi mille chilometri da Nairobi compare di nuovo la civiltà. Non si tratta però esattamente di un’oasi… ma questa è un’altra storia.
Caldo opprimente, strade sabbiose sulle quali è persino difficile camminare, vegetazione rada e spinosa. Se la vita nei villaggi africani a cui siamo abituati sembra difficile, questa appare addirittura impossibile. Dove questa gente tragga acqua e alimenti è misterioso. In questo paesaggio riarso dal sole, migliaia di famiglie conducono una vita normale fatta di gesti semplici e quotidiani; non è difficile comprendere come mai la gente del deserto abbia sviluppato un carattere ed un fisico così coriacei. I somali sono gente dura e orgogliosa, inasprita da un credo fondamentalista e intransigente. Essi popolano fin dai tempi antichi l'intero nord-est del Kenya, regione semi-desertica morfologicamente più simile al nord-Africa che non all'Africa sub-sahariana. Wajir si trova ad un centinaio di chilometri dal confine somalo, mentre sono almeno trecento i chilometri di pista sabbiosa e strada disagevole che la separano da Nairobi. Questo è uno dei motivi per i quali Wajir possa essere considerata più una città della Somalia meridionale che non del Kenya settentrionale. Wajir è senz'altro un luogo di frontiera, lontano da ogni rotta del turismo ed evitato dai keniani stessi, nel quale la sfida maggiore è il confronto con una cultura complessa e poco propensa al dialogo.
Avvenimenti tragici accaduti in Somalia durante la nostra permanenza hanno fatto salire la tensione e ci hanno indotto ancor più a prestare attenzione ad ogni nostro minimo gesto. Essere cattolici in questi luoghi è assai complicato: ogni religione diversa dall'Islam viene guardata con sospetto e col timore che possa minare lo status quo. Diverse chiese sono state cacciate da Wajir, "colpevoli" di essersi prodigate in opere di evangelizzazione e di aver provocato la conversione di qualche somalo. Ciò non è tollerato, e l'espulsione della comunità religiosa viene accompagnata da atti violenti ai danni di tutte le chiese presenti, cattolici compresi. Un crocefisso privato delle braccia sopra l'altare della Chiesa cattolica testimonia quanto sia delicata la presenza dei cattolici a Wajir. Ci ha ospitati Pina Russo, missionaria laica romana che ha dedicato gli ultimi otto anni della sua vita a favore della comunità locale. In accordo con la diocesi di appartenenza, la diocesi di Garissa (otto ore di autobus da Wajir!), Pina svolge la sua opera di volontariato senza fini di evangelizzazione, con spirito di pura e disinteressata carità. Questo indirizzo, da sempre portato avanti fin dai tempi di Annalena, ha permesso alla Chiesa cattolica di essere ben accetta e accolta con riconoscenza dalla popolazione. L'importanza del lavoro che viene svolto tra mille difficoltà ogni giorno a Wajir è proprio questa: costruire un ponte di pace e di dialogo con il mondo musulmano, testimoniando con le opere concrete i valori in cui crede la nostra civiltà, evitando le parole e i giudizi che, se espressi con leggerezza, sono in grado di provocare incomprensioni e risentimento.
Forti del favore che i cattolici hanno saputo costruirsi nel corso degli anni, siamo stati accolti da tutti i somali che abbiamo incontrato con grande cordialità e amicizia, addirittura invitati ad entrare nelle capanne e a sedere al loro fianco. In questo angolo remoto del Kenya nel corso degli anni sono state realizzate con successo diverse strutture: una clinica per la cura della tubercolosi ed un "villaggio" dove i pazienti possono trovare alloggio per la durata della terapia, una scuola per sordomuti, una scuola per giovani ragazze somale, un centro per la riabilitazione dei bambini disabili, un centro di accoglienza per anziani. L'impronta che Annalena (e chi ha lavorato insieme a lei) ha lasciato qui è molto forte, e molte persone incontrate la ricordano con commozione, rispetto e gratitudine. Ma non sarebbe giusto parlare di Wajir coniugando ogni verbo al passato.Gli anni sono trascorsi, alcune strutture sono state chiuse, altre sono radicalmente cambiate nell'impostazione generale, altre ancora hanno subito vicissitudini pur mantenendo inalterato lo spirito di carità, condivisione e testimonianza.E' questo il caso del Centro di Riabilitazione, un luogo dove ancora oggi vengono compiuti piccoli miracoli quotidiani.
Nella società somala si riscontra uno dei più alti tassi di disabilità infantile registrabili in qualunque altra parte dell'Africa. Numerose sono le motivazioni: denutrizione, consanguineità, mutilazioni genitali, mancanza di assistenza sanitaria al parto. Quattro figli di cui tre ciechi, tre figli con malformazioni alle gambe… sono solo esempi di situazioni reali di famiglie che abbiamo visitato insieme ai volontari del Centro di Riabilitazione. Oggi l'attività del Centro è portata avanti infatti da giovani volontari kenyani che hanno maturato competenze in ambito ortopedico, infermieristico, fisioterapico. Joseph, Viola, Betty, Fatuma, Rose e Joel seguono e svolgono riabilitazione quotidiana nel Centro a numerosi bambini, visitano nei villaggi di appartenenza quelle famiglie che non sono in grado di portare i loro figli fino a Wajir, costruiscono attrezzature per la deambulazione, distribuiscono alimenti alle famiglie che non sono in grado di procurarseli, somministrano medicinali a bambini che altrimenti morirebbero di banali malattie. Questi ragazzi, senza fondi che non provengano da donazioni di privati, lavorano volontariamente in una maniera estremamente professionale, riempiendo di amore e compassione ogni loro atto. Pina poi assicura al Centro di Riabilitazione una preziosissima opera di coordinamento e supervisione. Siamo stati testimoni di drammatiche realtà alle quali era difficile anche solo assistere come osservatori. Il lavoro di questi volontari ci ha colpiti profondamente, e l'impegno che ci siamo presi è quello di realizzare un libro fotografico con la vendita del quale contribuire a sostenere il loro operato. Ciò che è stato realizzato a Wajir in passato è miracoloso. Ma la sabbia del deserto ed il tempo rischiano di cancellare ogni cosa. In quei luoghi i bisogni sono ancora tantissimi e chi opera ogni giorno per farvi fronte va sostenuto con impegno e costanza, perché nulla di ciò che è stato e che ancora vive vada perduto.