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sabato 6 settembre 2008

Tra gli Angeli di Wajir

Caldo opprimente, strade sabbiose sulle quali è persino difficile camminare, vegetazione rada e spinosa. Se la vita nei villaggi africani a cui siamo abituati sembra difficile, questa appare addirittura impossibile. Dove questa gente tragga acqua e alimenti è misterioso.
In questo paesaggio riarso dal sole, migliaia di famiglie conducono una vita normale fatta di gesti semplici e quotidiani; non è difficile comprendere come mai la gente del deserto abbia sviluppato un carattere ed un fisico così coriacei.
I somali sono gente dura e orgogliosa, inasprita da un credo fondamentalista e intransigente. Essi popolano fin dai tempi antichi l'intero nord-est del Kenya, regione semi-desertica morfologicamente più simile al nord-Africa che non all'Africa sub-sahariana.
Wajir si trova ad un centinaio di chilometri dal confine somalo, mentre sono almeno trecento i chilometri di pista sabbiosa e strada disagevole che la separano da Nairobi. Questo è uno dei motivi per i quali Wajir possa essere considerata più una città della Somalia meridionale che non del Kenya settentrionale.
Wajir è senz'altro un luogo di frontiera, lontano da ogni rotta del turismo ed evitato dai keniani stessi, nel quale la sfida maggiore è il confronto con una cultura complessa e poco propensa al dialogo.

Avvenimenti tragici accaduti in Somalia durante la nostra permanenza hanno fatto salire la tensione e ci hanno indotto ancor più a prestare attenzione ad ogni nostro minimo gesto.
Essere cattolici in questi luoghi è assai complicato: ogni religione diversa dall'Islam viene guardata con sospetto e col timore che possa minare lo status quo. Diverse chiese sono state cacciate da Wajir, "colpevoli" di essersi prodigate in opere di evangelizzazione e di aver provocato la conversione di qualche somalo. Ciò non è tollerato, e l'espulsione della comunità religiosa viene accompagnata da atti violenti ai danni di tutte le chiese presenti, cattolici compresi. Un crocefisso privato delle braccia sopra l'altare della Chiesa cattolica testimonia quanto sia delicata la presenza dei cattolici a Wajir.
Ci ha ospitati Pina Russo, missionaria laica romana che ha dedicato gli ultimi otto anni della sua vita a favore della comunità locale. In accordo con la diocesi di appartenenza, la diocesi di Garissa (otto ore di autobus da Wajir!), Pina svolge la sua opera di volontariato senza fini di evangelizzazione, con spirito di pura e disinteressata carità. Questo indirizzo, da sempre portato avanti fin dai tempi di Annalena, ha permesso alla Chiesa cattolica di essere ben accetta e accolta con riconoscenza dalla popolazione.
L'importanza del lavoro che viene svolto tra mille difficoltà ogni giorno a Wajir è proprio questa: costruire un ponte di pace e di dialogo con il mondo musulmano, testimoniando con le opere concrete i valori in cui crede la nostra civiltà, evitando le parole e i giudizi che, se espressi con leggerezza, sono in grado di provocare incomprensioni e risentimento.


Forti del favore che i cattolici hanno saputo costruirsi nel corso degli anni, siamo stati accolti da tutti i somali che abbiamo incontrato con grande cordialità e amicizia, addirittura invitati ad entrare nelle capanne e a sedere al loro fianco.
In questo angolo remoto del Kenya nel corso degli anni sono state realizzate con successo diverse strutture: una clinica per la cura della tubercolosi ed un "villaggio" dove i pazienti possono trovare alloggio per la durata della terapia, una scuola per sordomuti, una scuola per giovani ragazze somale, un centro per la riabilitazione dei bambini disabili, un centro di accoglienza per anziani. L'impronta che Annalena (e chi ha lavorato insieme a lei) ha lasciato qui è molto forte, e molte persone incontrate la ricordano con commozione, rispetto e gratitudine.
Ma non sarebbe giusto parlare di Wajir coniugando ogni verbo al passato.Gli anni sono trascorsi, alcune strutture sono state chiuse, altre sono radicalmente cambiate nell'impostazione generale, altre ancora hanno subito vicissitudini pur mantenendo inalterato lo spirito di carità, condivisione e testimonianza.E' questo il caso del Centro di Riabilitazione, un luogo dove ancora oggi vengono compiuti piccoli miracoli quotidiani.



Nella società somala si riscontra uno dei più alti tassi di disabilità infantile registrabili in qualunque altra parte dell'Africa. Numerose sono le motivazioni: denutrizione, consanguineità, mutilazioni genitali, mancanza di assistenza sanitaria al parto. Quattro figli di cui tre ciechi, tre figli con malformazioni alle gambe… sono solo esempi di situazioni reali di famiglie che abbiamo visitato insieme ai volontari del Centro di Riabilitazione. Oggi l'attività del Centro è portata avanti infatti da giovani volontari kenyani che hanno maturato competenze in ambito ortopedico, infermieristico, fisioterapico. Joseph, Viola, Betty, Fatuma, Rose e Joel seguono e svolgono riabilitazione quotidiana nel Centro a numerosi bambini, visitano nei villaggi di appartenenza quelle famiglie che non sono in grado di portare i loro figli fino a Wajir, costruiscono attrezzature per la deambulazione, distribuiscono alimenti alle famiglie che non sono in grado di procurarseli, somministrano medicinali a bambini che altrimenti morirebbero di banali malattie. Questi ragazzi, senza fondi che non provengano da donazioni di privati, lavorano volontariamente in una maniera estremamente professionale, riempiendo di amore e compassione ogni loro atto. Pina poi assicura al Centro di Riabilitazione una preziosissima opera di coordinamento e supervisione.
Siamo stati testimoni di drammatiche realtà alle quali era difficile anche solo assistere come osservatori. Il lavoro di questi volontari ci ha colpiti profondamente, e l'impegno che ci siamo presi è quello di realizzare un libro fotografico con la vendita del quale contribuire a sostenere il loro operato.
Ciò che è stato realizzato a Wajir in passato è miracoloso. Ma la sabbia del deserto ed il tempo rischiano di cancellare ogni cosa. In quei luoghi i bisogni sono ancora tantissimi e chi opera ogni giorno per farvi fronte va sostenuto con impegno e costanza, perché nulla di ciò che è stato e che ancora vive vada perduto.
(testo scritto nell'Ottobre 2006)

M.L.




mercoledì 6 febbraio 2008

La Pioggia di Ikondo

Chi ha vissuto in un paese tropicale la conosce. Essa è, a tutti gli effetti, quell'insieme di precipitazioni che vanno sotto il nome di piogge monsoniche o stagione della piogge.
Questo fenomeno ciclico si verifica in tutte nazioni bagnate dall'Oceano Indiano durante l'estate australe, quando cioè masse d'aria sature dell'umidità dell'oceano vengono spinte verso la massa continentale asiatica fino alla catena dell'Himalaya, dove vengono spinte verso l'alto per poi ricadere sotto forma di pioggia.
Ciò accade, in Tanzania, per sei mesi all'anno, da Novembre a Maggio. A Maggio i monsoni cambiano direzione, determinando l'inizio dell'inverno australe. In quel periodo i continenti sono più freddi dell'oceano e quindi i venti spirano da terra verso il mare, determinando una stagione caratterizzata da clima secco e mancanza di pioggia.
Questi avvenimenti climatici incidono in maniera profonda sulla vita delle popolazioni che si trovano in queste aree. Le piogge segnano la stagione dell'agricoltura e delle attività da cui deriveranno i mezzi di sostentamento per tutto l'anno. Tutti, ma proprio tutti i tanzaniani, si recano ai campi per piantare mais, patate, girasoli, fagioli e piselli. Anche chi lavora in città ricoprendo magari incarichi di tutto rispetto e lucrativi, ha qualcuno a casa che lavora i campi per lui. Il distacco dall'attività agricola non sembra essere ancora avvenuto, anche in molti contesti urbani.
In alcune regioni della Tanzania piove pochi giorni ed in maniera imprevedibile, complicando immensamente la produzione di alimenti. Ecco che allora la selezione attuata dall'uomo ha "donato" colture che resistono alla siccità, come il sorgo, il sesamo, la manioca, il miglio e l'arachide.
L'umidità che caratterizza la stagione delle piogge determina inoltre le condizioni ideali per l'esplosione demografica della popolazione di insetti, e fra questi del più temibile insetto del mondo, la zanzara Anopheles, il vettore della malaria. Questo è infatti il periodo in cui si ha il picco dei casi e, purtroppo, delle morti a causa di questa malattia.
Le piogge abbondanti sono poi alla base di alcuni ecosistemi molto particolari che si trovano in Tanzania. Le correnti monsoniche, incontrando i rilievi delle Montagne dell'Arco Orientale, causano delle precipitazioni eccezionali sulle pendici di questi monti e alimentano alcune delle foreste pluviali meno conosciute del nostro pianeta. Queste foreste trattengono l'acqua di precipitazione e la rilasciano gradualmente nel corso del periodo secco; sono quindi veri e propri bacini idrici fondamentali per la protezione di corsi idrici e sorgenti.


Questa è la teoria, ed è alla portata di tutti.

Vivere una stagione delle piogge da straniero invece comporta tutta una serie di controindicazioni che non sono riportate nei libri. Se la si trascorre poi in un villaggio sperduto, beh, si può parlare di masochismo puro e semplice.
Ikondo è un piccolo villaggio distante tre ore di sterrato (la distanza non è importante in quanto assolutamente relativa) dal più vicino centro urbano, Njombe. Durante le piogge la durata del viaggio può variare dalle quattro ore ai due giorni, in base allo stato delle strade, dei ponti ed alla presenza di veicoli impantanati in mezzo alla strada ed abbandonati al loro destino. Ogni viaggio è una specie di roulette russa, non avendo alcuna certezza tranne una: non arriverai pulito alla meta.
Quando non si viaggia i problemi sono diversi. Di fatto si trascorre la stagione delle piogge da eremiti, non potendo muoversi né fare passeggiate. Si legge tantissimo, si lavora molto al computer, si guardano film se si ha la fortuna di averne. Non sempre si riesce a dormire, perché a volte la pioggia è talmente forte che lo scroscio provocato impedisce di addormentarsi. La vita chiusi tra casa ed ufficio è noiosa, ma la prospettiva di mettersi per strada, con tutto quello che ciò comporta, la rende preferibile ad ogni altra cosa.
La pioggia cadendo produce un rumore di fondo che all'inizio è snervante, ma al quale poi ci si arrende sconfitti.


Tutto sommato alla lunga si scoprono anche alcuni aspetti per così dire "romantici", per cui assecondando i propri ritmi al clima ci si cala maggiormente in una vita scandita dalla natura e quindi più umana, meno frenetica, più propensa a costruire relazioni. E questo è esattamente ciò che fanno anche gli abitanti di Ikondo. Quando non sono nei campi si trovano e parlano per ore ed ore (oltre che bere litri di alcolici a base di mais fermentato). Oppure non fanno semplicemente nulla, osservano la pioggia mettendosi in quello stato di attesa passiva così bene descritto da Kapuscinski e che lascia sbalordito quanto perplesso chi viene dalla nostra parte del mondo. Vivendo un periodo lungo in un villaggio come Ikondo si inizia a comprendere questo stile di vita apparentemente inoperoso, che in realtà è solo un adattamento al clima. Queste persone attendono, immobili, un solo momento.
Improvvisamente il rumore di fondo, che durava ormai da sei mesi, si interrompe e rimane solo il silenzio. Le piogge sono finite, ed inizia una nuova stagione della vita.

M.L.