domenica 26 dicembre 2010

Storia di Ordinaria Povertà

Qualche giorno fa Joseph è entrato in ufficio con un po’ di titubanza per parlarmi del problema di un suo compagno ma, trovata l’atmosfera adatta ha cominciato a raccontarmi la sua storia. E’ nato in una famiglia abbastanza benestante e i primissimi anni della sua fanciullezza sono trascorsi nella pace. Il padre aveva un lavoro ben retribuito, la mamma coltivava i campi. Erano 4 fratelli di cui lui era il maggiore. Purtroppo questa situazione ha cominciato a cambiare quando il padre si è lasciato coinvolgere da un compagno di lavoro in un affare losco, si è dato all’alcool e alle donne. Tornava a casa solamente per lasciare qualche soldo per i figli Un giorno il datore di lavoro scoprì di essere stato derubato da lui e i suoi compagni; lo portò in un luogo di stregoneria ed egli ritornò a casa irriconoscibile. Joseph piange quando spiega lo shock che ha avuto nel vedere suo padre così cambiato: urlava, batteva sua mamma e suoi fratelli. Lui, il più grande, scappò dalla paura e andò a vivere dalla nonna. Un giorno il padre, in preda alla follia, afferrò il figlio più piccolo, di circa 5 anni, lo picchiò e lo trascinò nel bosco. Camminarono per lunghe ore. Il padre sempre più furioso entrò in una casa di un villaggio lontano: cominciò ad imprecare dicendo che voleva le sue mucche e capre. Gli abitanti della casa spaventati presero bastoni per difendersi e lo malmenarono fino a rompergli le gambe. Poi lo lasciarono nel bosco. Il bambino vagò per un po’, e poi cadde sfinito nel bosco lontano dal padre.


Qualche passante riconobbe il padre e portò la notizia alla famiglia che lo venne a prendere e riportare a casa. Quando lo videro, la mamma e i fratelli disperati gli chiesero dove aveva lasciato il piccolo. Egli, ritornato in sé, indicò il luogo. Joseph e la mamma corsero a cercare il piccolo.

A questo punto del racconto Joseph fa grande fatica a continuare: e’ sopraffatto dal dolore. Descrive suo fratellino con tanto amore: era bello, sano, allegro e intelligente. Lo abbiamo trovato riverso al suolo, morto. Le formiche legionarie, le siafu, ne avevano divorato i visceri.


Joseph dice con forza: “sister, quel giorno ho cominciato a odiare mio padre: per me lui era solo un animale della terra, di quelli che mangiano animali sotto terra. La mamma ha dovuto vendere tutti i nostri beni per pagare i debiti di mio padre. Siamo rimasti perfino senza casa. Mi sono ammalato e mi hanno portato nell’ospedale della città’. Lì il Signore mi aspettava per salvarmi. Una missionaria della Consolata che visitava gli ammalati mi ha visto in pericolo di morte e mi ha battezzato….Io sono sicuro che la Grazia di Gesù mi ha conquistato; tornato a casa ho cominciato a pregare e pian piano ho trovato la forza di perdonare mio padre e di insegnargli la Parola di Dio. Poi, dopo alcuni anni, finito le elementari desideravo tanto proseguire gli studi ma mia madre, molto ammalata, non poteva pagare le spese. Sono andato in città a cercare lavoro e qui un’altra missionaria della Consolata e’ stato lo strumento di Dio per darmi consolazione e speranza. Ella mi ha offerto di venire in questo Centro dove oggi sto bene perché qui c’é pace, bontà e lo studio mi apre un mondo che non conoscevo. Ho anche la possibilità di aiutare con la preghiera e il consiglio i miei compagni provati come me da esperienze tristi”.

Nel Centro Joseph è davvero una presenza buona, positiva e anche coraggiosa. E’ forte con i compagni che non fanno bene, li accompagna e se vede che le fanno troppo grosse ce li indica perché noi possiamo prendere i provvedimenti necessari per aiutarli a cambiare. Ne ha già salvati alcuni da comportamenti che avrebbero potuto portare serie conseguenze alla loro giovane vita.


Mi dice anche che sovente pensa con preoccupazione alla mamma, molto ammalata, che si trascina nel campo per coltivare un po’ di granoturco e verdure per tirare avanti e nutrire il padre disabile e i due figli che frequentano ancora la scuola. Joseph, quando trova un po’ di tempo libero dagli impegni del Centro, coltiva un campicello e ne vende il raccolto per pagare le spese di studio del fratello che frequenta le secondarie.


Quest’anno Joseph finisce la quarta classe e lascerà il Centro.

Questa testimonianza è stata raccolta da Suor Zita del centro di formazione secondaria "Nyota ya Asubuhi" di Ilamba.

venerdì 26 novembre 2010

Italia unita... a tavola!

Alcuni giorni fa mi trovavo su un volo Atene – Monaco e mi è capitato per le mani uno dei quotidiani distribuiti gratuitamente dalla compagnia aerea, il Wall Street Journal. A pagina due mi sono imbattuto in un articolo scritto da Francis X. Rocca, il corrispondente dall’Italia. Il tema dell’articolo era il rapporto degli italiani con il cibo prendendo come pretesto l’uscita di una nuova edizione del libro del romagnolissimo Pellegrino Artusi. In un volo dalla Grecia su un giornale americano c’era una storia di Romagna, e mi è sembrato interessante riportare alcuni brani di questo strano e sorprendente incontro.

“Saranno i maccheroni, vi giuro, che uniranno l’Italia.” Non sappiamo se veramente Giuseppe Garibaldi, condottiero leggendario del Risorgimento che ha unificato gli stati della penisola italiana, pronunciò davvero queste parole, eppure esse testimoniano il ruolo centrale - spesso ossessivo – che il cibo ha sempre giocato nella cultura e società italiana.


L’Italia segna il suo centocinquantesimo anniversario come moderna nazione-stato il prossimo anno, ed il flusso di manifestazioni, trasmissioni, libri ed inserti di quotidiani e riviste che commemorano la ricorrenza è già in piena. Nulla potrà esprimere meglio “il sapore” di questo avvenimento dell’uscita prevista per il prossimo mese della nuova edizione di “La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene” di Pellegrino Artusi. Pubblicato per la prima volta nel 1881, il libro si posiziona come classico della letteratura e non semplicemente come libro di ricette.

Le liste di ingredienti e le indicazioni sulla loro combinazione sono frammiste ad affascinanti digressioni sulla storia, letteratura, mitologia classica, folklore, scienza e gossip. Ad esempio, la ricetta dell’Artusi per la preparazione dell’Arista (lonza di maiale arrosto) spiega che il suo nome deriva da un’espressione greca che significa “buono”, usata dai vescovi della chiesa ortodossa d’oriente per la preghiera recitata quando veniva servito il pasto durante il Concilio di Firenze nel sedicesimo secolo.



“L’arte di mangiar bene” non fu solo un omaggio al buon cibo; fu anche un atto di patriottismo. Artusi era un ricco mercante della seta proveniente dal nord della Romagna ed impiegò decenni compilando ricette da tutto il paese, contribuendo di fatto all’unificazione italiana. Il suo libro fu un trampolino di lancio per la versione fiorentina del dialetto toscano, in futuro la nuova lingua nazionale, che al tempo nessuno al di fuori di Firenze la parlasse. I dialetti regionali rimangono tuttavia forti anche al giorno d’oggi. Molte persone li preferiscono per la comunicazione quotidiana, ed un amico linguista stima che circa metà della popolazione parla ancora meglio il proprio dialetto che la lingua italiana ufficiale. E ciò avviene anche in cucina. Alcuni piatti, come gli spaghetti o la cotoletta di vitello alla milanese, sono divenuti parte del menu nazionale. Ma è difficile trovare qualcuno a Torino che a mangia le orecchiette alle cime di rapa oppure qualcuno in Sicilia che al ristorante ordina un risotto allo zafferano.

Non dovrebbe quindi sorprendere che, oltre un secolo e mezzo dopo che lo statista austriaco Klemens von Metternich definì l’Italia come una mera “espressione geografica”, l’unità d’Italia rimanga un lavoro in corso. Nelle elezioni locali dell’anno scorso oltre un quarto degli elettori ha votato in Veneto e Lombardia la Lega Nord la quale, sebbene abbia abbandonato la sua retorica separatista degli anni novanta, continua a giocare pesantemente su un risentimento nei confronti di un meridione sottosviluppato e stato-dipendente.

Se la nazione ha un cuore, la via per raggiungerlo passa certamente attraverso lo stomaco. Secondo un recente sondaggio promosso da Coldiretti, circa la metà degli italiani pensa che l’aspetto più significativo dell’identità nazionale sia la cucina, davanti alla cultura, la moda ed il calcio. E’ significativo che anche gli insulti tra diverse regioni riconoscano un’origine legata al cibo: i settentrionali sono etichettati “polentoni” (mangiatori di polenta) mentre i meridionali “terroni” (mangiatori di terra).

Forse il declino del cibo cucinato in casa in Italia sta ispirando una nostalgia per il sempre più raro stile di vita tradizionale. Anche se non hanno più tempo per cucinare del buon cibo, gli italiani potranno almeno leggere come si prepara grazie all’applicazione Artusi presente su i-Phone e i-Pod.

M.L.

martedì 19 ottobre 2010

Turismo Responsabile a Bomalang'ombe

Di seguito una carrellata di fotografie scattate a Bomalang'ombe nel corso del viaggio di turismo responsabile organizzato da VolontariA e T-Erre lo scorso settembre.

sabato 2 ottobre 2010

Ruaha National Park

Di seguito il montaggio di alcuni video girati durante un safari al Ruaha National Park nel settembre 2010. Dopo l'annessione dell'Usangu Game Reserve il Ruaha è diventato per estensione il parco nazionale più grande della Tanzania (superando anche il Serengeti) ed il secondo in tutta l'Africa. Durante la stagione secca il corso d'acqua si riduce sensibilmente e tutti gli animali, per abbeverarsi, sono costretti a scendere nel letto inaridito del fiume sfidando i numerosi branchi di leoni che ne sorvegliano le sponde.



martedì 28 settembre 2010

Swahili: Ponte o Barriera?

Il luogo comune che aleggia intorno allo Swahili è che si tratta di una lingua che accomuna tutti gli stati dell’Africa Orientale e che è in grado di portare stabilità all’intera regione. C’è chi suggerisce che nei futuribili “Stati Uniti d’Africa” lo Swahili dovrà necessariamente rappresentare la lingua ufficiale. La verità è che lo Swahili ha fallito nell’intento di rimanere fuori dalla politica. Ed è tutta colpa di Che Guevara… beh, più o meno.


Nel 1965 il rivoluzionario argentino adottò il termine Swahili per “tre”, tatu, per designare il suo grado gerarchico nell’esercito cubano. Questo avveniva nel corso dell’offensiva della guerriglia nello Zaire orientale contro l’allora presidente Joseph Mobutu. La missione del Che fallì, l’instabilità si radicò nella regione e i politici di Kinshasa delle regioni occidentali cominciarono ad associare lo Swahili alla ribellione. La vendetta si è compiuta quando un ribelle che parlava Swahili proveniente dall’Est di nome Laurent Kabila, rovesciò Mobutu, l’incontrastato campione Lingala, la lingua franca del paese. A Kabila succedette il figlio, Joseph, che non parlava Lingala, ed in virtù di questo ebbe una difficoltosa campagna presidenziale nel 2006: i critici lo etichettarono come straniero dal momento che dovette confidare su interpreti (inclusa la moglie) per vincere le elezioni […].

La situazione è comunque andata modificandosi negli ultimi anni registrando un aumento dell’uso dello Swahili in Congo, un paese con 66 milioni di abitanti e 220 gruppi etnici. Ciò è avvenuto anche grazie ad un diffuso sentimento di apatia nei confronti del gruppo dominante Lingala che hanno prosperato durante gli anni del colonialismo belga e del regno di Mobutu. La nuova costituzione introdotta nel Febbraio 2006 ha inserito lo Swahili insieme al Lingala, Tshiluba e Kikongo come una delle quattro lingue ufficiali nazionali della R.D. del Congo. In aggiunta a ciò, la recente riforma militare ha visto l’integrazione degli ex-ribelli di lingua Swahili nell’esercito regolare, il che ha posto termine al dominio del Lingala come linguaggio per l’addestramento militare […].



Inoltre, l’instabilità nella regione dei Grandi Laghi a partire dal 1990 ha portato un grande flusso di profughi di lingua Swahili provenienti dal Ruanda, Burundi ed Uganda fino al cuore del Congo […].

Tendenze simili sono state registrate in Ruanda, Burundi, Sud Sudan e Somalia dove gli esuli rientranti hanno portato con sé la lingua appresa nei campi profughi in Kenya e Tanzania.

In Uganda il governo si sta prodigando in uno sforzo per promuovere questa lingua, ma deve confrontarsi col fatto che lo Swahili rimane impopolare tra le generazioni più vecchie e tra i Baganda, l’influente tribù che associa lo Swahili con i passati abusi perpetrati dai militari. In particolare, l’espressione “panda gari!” (Sali sull’auto!) era comune ai tempi del Presidente Milton Obote e del dittatore Idi Amin negli anni ’70. Questa espressione veniva usata per intimare agli avversari politici (veri o presunti) di salire sui mezzi di sicurezza durante le brutali irruzioni. Chi salì su quei veicoli non fece più ritorno. Idi Amin decretò poi che lo Swahili doveva diventare l’unica lingua nazionale […] . Le cose non sono migliorate quando il Presidente Yoweri Museveni salì al potere con le armi nel 1986, aiutato da politici ed ufficiali che avevano studiato o erano stati esiliati in Tanzania, la patria spirituale dello Swahili.



Lo Swahili non riceve troppi complimenti nemmeno in Kenya, sebbene venga correntemente parlato da circa 20 milioni di persone. Nonostante sia una delle lingue nazionali (insieme all’inglese), tutta la corrispondenza ufficiale viene condotta in inglese. Inoltre l’elite culturale ed economica del paese riserva lo Swahili per le comunicazioni informali oppure per esigenze di campagne elettorali. Infatti alcuni accusano i politici di sostenere in modo puramente formale questa lingua, dal momento che tendono ad associarla comunemente con scarsi livelli di alfabetizzazione[…].

Ma quanto è pura la lingua Swahili? Questo linguaggio nacque circa 1000 anni fa in Africa Orientale .Il suo nome deriva dall’espressione araba “area costiera”, che è poi la zona dell’Africa Orientale dove risiede la maggior parte di coloro che parlano questa lingua. La parola “Swahili” verrà successivamente utilizzata per descrivere il linguaggio, la cultura e i popoli di questa regione. Come linguaggio esso deriva da un amalgama di Arabo, Persiano e Bantu e contiene termini prestati dal Portoghese, Tedesco e Inglese. I trafficanti arabi di schiavi hanno portato lo Swahili fino al cuore dell’Africa, dove i missionari europei l’hanno trovato e studiato finendo per pubblicare il primo dizionario Swahili - Inglese. Anche i colonialisti hanno successivamente adottato questa lingua principalmente per poter commerciare nelle zone più rurali del continente.



Lo Swahili viene parlato da interi popoli in Tanzania (32 milioni), Kenya (20 milioni), DR Congo (15 milioni), Uganda (8 milioni), Burundi (2 milioni), Ruanda (2 milioni), Malawi, Sudan, Somalia, Mozambico e Comore. Ma è realmente solo in Tanzania che lo Swahili si è diffuso e sviluppato. Non è solo riuscito ad unire un paese composto da 120 tribù, ma è anche diventato l’ingrediente principale dell’identità culturale e nazionale. La sua crescita va accreditata soprattutto al Presidente Julius Nyerere che ha reso lo Swahili nel 1962 unica lingua nazionale usandolo poi nei suoi villaggi collettivi chiamati ujamaa. L’esperimento socialista di Nyerere fu in definitiva un fallimento, ma portò alla nascita di uno fra i paesi etnicamente e politicamente più stabili di tutta l’Africa.



Post tratto dall’articolo “The Language Barrier” di Mathias Muindi pubblicato nel 2008 da BBC Focus on Africa

venerdì 20 agosto 2010

Mangiatori di Uomini

24 Settembre 2001, villaggio di Mnali. Sono le 6 della sera, e Pili Tengulengu, otto anni, torna a casa come ogni giorno insieme ai cugini. Hanno trascorso la giornata in giro, e sanno che la zia li aspetta prima che faccia buio. Percorrono in fila indiana uno stretto sentiero fiancheggiato da muri di erba elefante, alta oltre due metri. Pili chiude la fila. I cugini sentono un fruscio, un rumore appena accennato e poi l’urlo strozzato di Pili. Si voltano e non la trovano. Corrono a casa per denunciare l’accaduto ai genitori, i quali immediatamente organizzano le ricerche insieme ad altri adulti. I miseri resti di Pili scartati dai leoni vengono ritrovati poco tempo dopo in mezzo alla folta vegetazione.

Gennaio 2003, villaggio di Simana. Salum Mohamed viene svegliato nel cuore della notte dalle grida del nipote Hassani. Lo trova con un braccio incuneato tra i pali della parete esterna della capanna. Dai ringhi e dai brontolii capisce che il nipote è stato afferrato per un braccio da un numero imprecisato di leoni, che non sono riusciti a trascinarlo all’esterno soltanto perché il corpo del bambino si è incastrato tra due pali di sostegno. Inizia una tragica lotta tra Salum e gli animali per contendersi la vita del ragazzo. Gli animali si arrendono, strattonano con forza il braccio e lo strappano all’altezza della spalla. Salum riesce a fermare in modo improvvisato l’emorragia e la mattina successiva porta in bicicletta il nipote all’ospedale di Lindi. Hassani rimane mutilato ma sopravvive.


Luglio 2003.. Mohamed Suleman ha 15 anni e sta percorrendo la strada che conduce a Simana in bicicletta. Intravede più avanti due figure in mezzo alla strada, ma il riverbero del sole sulla strada gli impedisce di distinguerle chiaramente. Soltanto a pochi metri si accorge che si tratta di leoni. Immediatamente tira i freni e blocca la bicicletta. I leoni si dividono ed ognuno si getta tra la fitta vegetazione ai bordi della strada. Mohamed gira in fretta la bicicletta e torna sui suoi passi pedalando più veloce di quanto abbia mai fatto. Ha capito di essere appena sopravvissuto ad un agguato.

29 Maggio 2004, villaggio di Kipanda. Somoe Linyambe è un’anziana signora che vive insieme al marito ed alla nipote di 5 anni. E’ appena tornata dai campi, dove ha raccolto i tuberi per la cena. Il marito è andato a prendere l’acqua, quindi Somoe inizia a tagliare la legna necessaria per il fuoco. L’attacco è stato fulmineo, ed il leone ha ucciso Somoe davanti agli occhi della bambina. Al suo ritorno il marito non vedendo Somoe chiede alla nipote: “Piccola, dov’è la nonna”. E la bimba risponde: “Una mucca è saltata fuori dall’erba e l’ha portata via”. Di Somoe troveranno solo le gambe, a circa mezzo miglio di distanza.

Sono tre anni che i leoni terrorizzano questi villaggi e la gente, impaurita ed esasperata, decide di avvelenare i resti del corpo di Somoe sperando che il leone ritorni a cibarsi dei resti. Le gambe scompaiono nel corso della notte, e la mattina successiva trovano il leone morto non lontano da quel luogo. Quello stesso leone era stato in precedenza oggetto di due battute di caccia ed in entrambe le occasioni era stato colpito.

Dal 2001 al 2004, nella regione di Lindi, nella costa meridionale della Tanzania, tre diversi gruppi di leoni hanno provocato 113 vittime e 52 ferimenti e mutilazioni. Più in generale in Tanzania, dal 1990 al 2004, 563 persone sono morte e 308 sono rimaste ferite in seguito ad attacchi di leoni. La regione di Lindi è in assoluto la più colpita da questo fenomeno. Questi luoghi si trovano non lontano dalla più grande riserva di caccia dell’Africa, la Selous Game Reserve. Tuttavia le zone colpite distano quasi 200 km dai confini della Riserva, il che permette di escludere che i responsabili di tali massacri siano leoni che abbiano sconfinato. In realtà le zone limitrofe ai parchi non conoscono questo problema, poiché qualunque leone può trovare a meno di 200 metri di distanza in qualunque direzione gli ungulati che costituiscono le sue prede abituali. La Tanzania meridionale è l’ultimo luogo in Africa dove ancora resiste una popolazione significativa di leoni all’esterno di aree protette; questi predatori, a causa del degrado ambientale e dell’avanzare dell’agricoltura, hanno progressivamente visto scomparire gli animali selvatici normalmente cacciati ad eccezione di una specie, il maiale selvatico. Il maiale selvatico è l’unica specie che ha beneficiato in qualche modo dall’avanzata dell’uomo, trovando abbondanti fonti di cibo nei campi coltivati.

Tutti i contadini della Tanzania odiano i maiali selvatici perché devastano i campi e compromettono i raccolti, ma non hanno focalizzato un altro effetto che la diffusione dei maiali selvatici ha comportato. Essi infatti conducono i leoni verso i villaggi e li portano a contatto con la popolazione. I leoni, oltre i maiali selvatici, hanno iniziato frequentemente a nutrirsi di cani e capre, ed in diverse occasioni hanno optato per una preda ancora più facile da catturare: gli uomini ed in particolare i bambini. C’è un altro aspetto che potrebbe facilitare il lavoro ai leoni. Molti degli attacchi che si sono verificati hanno fatto pensare ad agguati studiati e premeditati. Gli uomini sono una specie abitudinaria, i contadini percorrono al ritorno dei campi i medesimi sentieri alla stessa ora, le famiglie si coricano tutte all’imbrunire, i bambini tornano da scuola sempre allo stesso orario.

Questi attacchi a Lindi sarebbero frutto del cosiddetto “effetto Njombe”. Esso trae il proprio nome da alcuni episodi che hanno visto come protagonisti i leoni di un Distretto (Njombe appunto) della Tanzania centromeridionale. Secondo le cronache, questi leoni avrebbero ucciso dal 1932 al 1947 circa 1500 persone. Questa strage avrebbe seguito lo sterminio di tutta la fauna selvatica operata dagli inglesi nel tentativo di eradicare la peste bovina. 15 leoni sono stati abbattuti e molti altri hanno abbandonato la zona di Njombe, che da un punto di vista ecologico non poteva più nutrirli. In pratica quindi anche i focolai di Lindi deriverebbero da un collasso ecologico e preluderebbero la scomparsa dei leoni da quei territori.
Un altro rilievo che farebbe propendere per la causa ambientale è che gli attacchi subiscono un picco nel corso della stagione asciutta. Gli animali selvatici sarebbero costretti a percorrere lunghe distanze per cercare l’acqua e si allontanerebbero dal territorio dei leoni ai quali non rimarrebbe che avvicinarsi alle abitazioni e agli animali domestici.


Gli attacchi di leoni hanno sempre provocato nelle popolazioni locali superstizioni e paure ancestrali. In molte occasioni le battute di caccia e le trappole non riescono a fermarli, ed i leoni assumono progressivamente i contorni di inafferrabili spiriti evocati da persone cattive con lo scopo di nuocere ad una persona o ad una comunità. A Lindi si racconta che chi vuole lanciare il malocchio contro qualcuno si reca in Mozambico dagli stregoni Makonde, i quali vengono considerati i più potenti per eseguire questo tipo di maleficio. Essi forniscono due tipi di erbe. Il primo tipo va posato nella foresta per richiedere i servigi del leone. Colui che esegue il maleficio deve rimanere nel “bush” fino a quando il leone tornerà dalla caccia, ed una volta tornato dovrà porgere al leone il secondo tipo di erba nel palmo aperto della mano. Il leone la mangerà ed il maleficio verrà interrotto. Purtroppo chi lancia il malocchio non riesce sempre a completare il sortilegio. Infatti la visione del leone che si avvicina furtivamente di notte con il muso insanguinato provoca spesso la fuga ed il leone non riceve l’erba che serve a “disattivarlo”. Il maleficio non viene interrotto ed il leone continua ad uccidere. I superstiziosi credono quindi che quando un leone uccide una persona è perché le è stato lanciato il malocchio, mentre quando a morire sono tanti ciò avviene perché il rito non è stato eseguito correttamente.

I leoni di Lindi sono soltanto gli ultimi leoni che contribuiscono a cementare il mito del mangiatore di uomini. Nel 1898 a Tsavo, in Kenya, una coppia di maschi senza criniera uccise 135 operai impegnati nella costruzione della ferrovia Mombasa-Nairobi. Questi due esemplari, abbattuti da Patterson, sono oggi esposti imbalsamati al museo di Chicago e sono entrati nella cinematografia grazie al film “Spiriti nelle tenebre”.

Questo post è stato tratto dall'articolo che trovate al link seguente.
http://www.nationalgeographic.com/adventure/photography/africa/tanzania/lions-maneating.html


M.L.

martedì 10 agosto 2010

Sagre di Romagna

Con l'arrivo dell'estate la Romagna manifesta tutto il suo amore per le proprie radici e tradizioni e la massima espressione di questa "etnicità" ostentata sono le sagre...









domenica 11 luglio 2010

Udzungwa Scarp

La Riserva Forestale di Udzungwa Scarp è una delle maggiori aree forestali che coprono la catena dei Monti Udzungwa, situati nella Tanzania centro-meridionale. Essa copre una superficie di circa 220 km2 sul versante sud-orientale della catena montuosa. Insieme al Parco Nazionale dei Monti Udzungwa, che rappresenta la sua continuazione settentrionale, costituisce un’area protetta di eccezionale valore ecologico, biologico ed ambientale. I Monti Udzungwa infatti rappresentano una porzione dell’Arco Orientale, una serie di rilievi montuosi che anticamente costituivano un’unica catena che attraversava da sud a nord tutta la Tanzania per terminare in Kenya.

L’erosione che ha avuto naturalmente luogo nel corso di milioni di anni ha provocato una parcellizzazione dell’antica catena in tante “isole” di rilievi coperti di foresta ed ecologicamente separate le une dalle altre da profondi avvallamenti caratterizzati da clima ed altitudine profondamente diversi. In questo modo l’evoluzione delle specie di animali e piante è proseguita in ognuno di questi segmenti montuosi in modo autonomo, dando origine ad una estrema biodiversità concentrata in superfici relativamente piccole. E’ grazie al grande numero di nuove specie scoperte e ancora da scoprire che i Monti Udzungwa si sono meritati l’appellativo di “Galapagos d’Africa”.

Un aspetto importante dell’Udzungwa Scarp è che la sua foresta primaria si estende lungo le pendici delle montagne partendo da un’altitudine di circa 400 metri s.l.m., con un caratteristico paesaggio di savana, fino ad un’altitudine di 1900 metri s.l.m., con un clima completamente diverso caratterizzato da abbondanti piogge e freddo intenso. All’interno di questa ampia varietà di ecosistemi si sono evolute e differenziate centinaia di specie di animali e piante, oltre a tutte le specie che hanno colonizzato successivamente questi luoghi e che si possono trovare anche in altre aree.

Tra le specie animali che si possono trovare solo nell’Udzungwa Scarp, ed in particolare in una piccola zona della riserva, la storia più curiosa riguarda la “Rana mammifera” (Nectophrynoides asperginis), così chiamata perché è ovovivipara e cioè non depone uova ma dà alla luce girini vivi. Il suo habitat sono le cascate di Kihanzi, e perché il suo ciclo biologico si completi sono necessarie proprio la corrente e gli spruzzi delle cascate. Kihanzi è sito scelto nel 2000 per la realizzazione di un gigantesco impianto idroelettrico, costruito grazie ad un progetto della Banca Mondiale da 270 milioni di dollari . L’opera di presa dell’acqua avrebbe modificato il naturale corso delle cascate minacciando così la sopravvivenza della rana mammifera. Grazie al grande lavoro delle associazioni di ambientalisti e agli studi dei biologi è stato possibile modificare il progetto originario in modo da conservare una nicchia ecologica per le rane.

Udzungwa Scarp è straordinariamente ricca di anfibi e rettili unici di queste zone, mentre i mammiferi più diffusi sono cinque specie di primati (colobo rosso, colobo bianco e nero, la scimmia di Syke’s, galagoni, cercocebo di Sanje), iraci, leopardi (nella parte più bassa della foresta), piccole antilopi e numerose specie di piccoli mammiferi che abitano il sottobosco. Tra questi il più simpatico è sicuramente il rincocione, un toporagno-elefante caratteristico dell’Africa orientale. Una nuova specie di rincocione è stata scoperta recentemente dai ricercatori del Museo Tridentino proprio sui Monti Udzungwa.

http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/esteri/topo-tanzania/1.html

La foresta dell’Udzungwa Scarp è seriamente minacciata dall’attività umana e dall’espansione degli insediamenti che si trovano lungo i confini della riserva. Purtroppo lo status di Riserva Forestale non garantisce le stesse misure di protezione che difendono i Parchi Nazionali, per cui attività illegali di bracconaggio ed il taglio indiscriminato degli alberi della foresta fanno sorgere interrogativi e preoccupazioni in merito alla sopravvivenza di questo straordinario quanto fragile ecosistema.

Un modo per aumentare l’interesse nei confronti di questa Riserva potrebbe essere quello di pubblicizzarne lo sfruttamento nel contesto di progetti di Ecoturismo. Il Museo Tridentino di Scienze Naturali ha provato ad esplorare questa possibilità, purtroppo con modesti risultati. Infatti il trekking in foresta non garantisce la stessa spettacolarità di un safari (gli alberi fitti ostacolano la visione della fauna) ed è tutt’altro che ricco di comfort. In più, come se non bastasse, il governo tanzaniano, forse per evitare le invasioni (per altro improbabili) di turisti nelle aree protette, ha burocratizzato pesantemente l’accesso alle Riserve Forestali imponendo il pagamento di una quota giornaliera superiore a quella del parco nazionale da effettuare esclusivamente negli uffici di Morogoro, a centinaia di km cioè dall’ingresso in foresta.

Tutte queste misure non hanno impedito, a mia moglie e me, di sperimentare il primo tratto di un trekking che attraversa tutta l’Udzungwa Scarp da Masisiwe (villaggio a circa 1900 metri) fino a Chita, che sorge lungo le sponde del fiume Kilombero proprio ai piedi della catena degli Udzungwa. La nostra meta era Kihanga (S 08°22’19,7”, E 35°58’52,9”) a 1692 s.l.m., che si trova a 11,2 km in linea d’aria dal villaggio di Masisiwe. La durata prevista era di 4 ore di marcia con i portatori. Malauguratamente abbiamo ritenuto di potere fare senza, ed il tempo di percorrenza e la fatica si sono dilatati sensibilmente (noi abbiamo impiegato circa 6 ore).

Gli abitanti di Masisiwe millantano di riuscire a raggiungere Chita in 8 ore, ma se dovessi prevedere un trekking considererei tre giorni di cammino per completare il percorso.

Kihanga è il campo base a cui si sono appoggiate tutte le spedizioni esplorative dell’Udzungwa Scarp, dove cioè i ricercatori e i naturalisti hanno montato i campi in grado di ospitare loro e le attrezzature necessarie allo studio della foresta e dei suoi abitanti.


Kihanga non è altro che una minuscola radura in mezzo alla foresta pluviale, la cui caratteristica principale è quella di trovarsi in prossimità di una sorgente di acqua purissima e trasparente assolutamente potabile, che forma fra l’altro un laghetto ideale per lavarsi.

Come detto gli unici componenti della spedizione eravamo mia moglie ed io, guidati da un anziano abitante del villaggio di Masisiwe, Stephan Kayage, che la comunità locale ha scelto per guidare le spedizioni dei visitatori che desiderano inoltrarsi nella foresta.

Stephan non aveva scarpe ed il solo bagaglio era una tanica di pombe (alcolico ottenuto dalla fermentazione del mais), due canne da zucchero ed un machete. Tutto il suo sostentamento di due giorni di marcia era contenuto in questi oggetti.

Noi eravamo stracarichi, con abbigliamento tecnico, tenda, cibo e acqua in quantità. A noi le nostre provviste sono risultate decisamente scarse.

La foresta si è rivelata una prova molto più dura del previsto, a causa del clima umido, i duri dislivelli e i tronchi abbattutti che ostacolavano il cammino, ma ci ha regalato emozioni indescrivibili. Purtroppo nei due giorni che siamo rimasti sui monti Udzungwa non abbiamo trovato il tempo per un’esplorazione del territorio circostante il campo. Appena arrivati al campo base infatti abbiamo acceso il fuoco, piantato la tenda, consumato il pasto e ci siamo fiondati immediatamente a dormire. Eravamo stremati.

Non ci sono sfuggiti però i rumori della notte, le voci dei milioni di esseri viventi che popolano la foresta. Di giorno quest’ambiente sembra disabitato, ma di notte la vita esplode letteralmente. Siamo riusciti a registrare il verso dell’irace arboricolo, il cui gracchiare sovrasta tutte la altre voci notturne.

Ci piacerebbe un giorno, forti dell’esperienza accumulata, completare il tragitto fino alla pianura del Kilombero, fino a Chita. In quell’occasione però ci faremo accompagnare da dei portatori, gente allenata ed esperta che non conosce la fatica.

M.L.

lunedì 21 giugno 2010

La Casa della Carità

Vivo alla casa della Carità da 15 anni, da quando cioè mi dimisero dall’ultima clinica riabilitativa in cui sono stata. Nella mia stanza c’è una vera e propria stazione operativa attraverso al quale riesco a comunicare con gli altri e dove trascorro il mio tempo ascoltando musica e guardando la televisione.

La Casa della Carità è stata aperta il 14 Novembre 1981, dopo diversi anni di preparazione e molti campi di lavoro a Fontanaluccia, un paesino dell’Appennino modenese dove nel 1941 è nata la prima Casa della Carità, fondata da Don Mario e Suor Maria. A Bertinoro la Casa della Carità è nata grazie al coinvolgimento di tutta la parrocchia ed all’impegno in prima persona di Don Luigi Pazzi.

I Simboli di questa Casa sono i “Tre Pani”, che rappresentano le tre mense dove il cristiano trova il suo nutrimento: la Mensa della Parola, la Mensa dell’Eucarestia e la Mensa dei Poveri. Il fondatore diceva che una Messa che non porta ai poveri è una Messa zoppa.

La Casa della Carità diventa quindi una “palestra” dove il cristiano va ad allenarsi e a verificare il proprio stile di vita; non è un luogo per gli “addetti ai lavori”, ma un “cantiere” sempre aperto dove c’è posto per tutti, credenti e non e dove ognuno può trovare la sua collocazione.

Nella Casa si cerca di creare un clima sereno, che faccia sentire tutti accolti e amati come in una famiglia; per questo non vengono chieste rette fisse ma, come succede in ogni famiglia, ognuno mette a disposizione quello che può e quindi contribuisce con la pensione o con l’accompagnamento.

Ciò è possibile perché questa struttura si regge sul volontariato; non ci sono infatti operatori o infermieri stipendiati.

Nella nostra Casa c’è la presenza fissa del Parroco e di due suore che svolgono la funzione paterna e materna. Attorno a loro ruota un gruppo di volontari che si impegnano a far sì che questa famiglia un po’ particolare possa continuare ad esistere.

Le persone che si trovano nella mia stessa condizione, perlopiù malati di SLA (sclerosi laterale amiotrofica) o persone che hanno subito danni alla colonna vertebrale, vengono assistiti a casa o in strutture protette convenzionate con la asl; per quanto mi riguarda quando mi sono ammalata non c'è stata la possibilità del rienrto in famiglia in quanto mio marito doveva lavorare per far crescere, purtroppo da solo, 2 figli piccoli (Erica aveva 10 anni e Tomas 1 e mezzo) e così grazie al consiglio di amici abbiamo trovato questa casa. Non è facile vivere lontano dalla tua famiglia e non vi nego che il mio sogno più grande sarebbe quello di poter tornare nella mia casa. Qui comunque sono circondata da persone piene di calore anche se a volte è dura perchè le cose da fare sono tantissime ed i volontari putroppo scarseggiano, anche perchè ognuno ha i propri impegni e la propria vita da portare avanti.
Per questo faccio ufficialmente un Appello a tutti colore che vivono nella mia splendida Romagna " VENITE, VENITE, VENITE" a trovarci anche solo per una ora o quando avete del tempo libero; qui potrete fare e farvi del bene.

PATRIZIA DONATI

domenica 16 maggio 2010

Un Diritto Negato

Tilivon ha 16 anni, ed è figlio del catechista del villaggio di Bomalang’ombe. E’ uno studente esemplare, ed i buoni risultati conseguiti durante la scuola primaria gli hanno consentito di accedere ad una scuola secondaria pubblica. Purtroppo, conformemente alle normative riguardanti la distribuzione degli studenti nella scuola pubblica, è stato destinato alla una scuola di Tunduru, che si trova a circa 500 chilometri da casa sua. Queste leggi, apparentemente crudeli, sono state introdotte dal primo presidente della Tanzania, Nyerere, allo scopo di formare classi composte da ragazzi provenienti da regioni diverse. In questo modo i ragazzi sono abituati fin da piccoli a frequentare un ambiente multietnico e ciò a contribuito a rendere la Tanzania uno dei pochi paesi dell’Africa a non conoscere tensioni sociali di matrice etnica. Trifon probabilmente non è al corrente del motivo per cui è costretto a rivedere la propria famiglia una volta all’anno affrontando un viaggio lungo e costoso, però accetta con gioia questa situazione perchè gli consente di studiare nella scuola secondaria.
Ayubo e Titus provengono da Kitemela, una piccola comunità rurale di poche centinaia di anime. Per arrivare al loro villaggio si è costretti a percorrere una strada sconnessa che è transitabile dalle auto pochi mesi all’anno. Le loro famiglie, come tutte quelle di Kitemela, traggono le proprie risorse dal lavoro dei campi e non possono permettersi di pagare la retta scolastica né le altre spese. Ogni studente infatti deve provvedere autonomamente all’acquisto del materiale scolastico, della divisa, del materasso, del cibo, del sapone, delle stoviglie, e di tutto l’occorrente per vivere lontano da casa propria. Ayubo e Titus sono i primi due abitanti del loro villaggio ad entrare nella scuola secondaria.





Jemaida vive a Mbawi, un villaggio situato sulle montagne della Tanzania meridionale. Frequenta la scuola secondaria a Masisiwe, che dista a piedi da casa sua un paio d’ore. Ogni giorno quindi Jemaida si alza molto prima dell’alba per arrivare puntuale a scuola per farvi poi ritorno alcune ore dopo il tramonto. Eppure, nonostante le difficoltà che la frequenza della scuola implica, Jemaida è una bambina fortunata perché, a differenza della maggior parte dei suoi coetanei di Mbawi, può ricevere un’istruzione che forse un giorno le consentirà di trovare un buon lavoro e quindi guadagnare abbastanza soldi da mantenere la sua famiglia.






Queste sono solo alcune delle storie dei ragazzi che beneficiano del progetto di Sostegno Scolastico di VolontariA onlus. La Tanzania è uno dei paesi dell’Africa con la più alta frequenza nelle scuole primarie (97 % - fonti Unicef), mentre è uno degli ultimi al mondo in fatto di accesso all’istruzione secondaria (4,8% - fonti Unesco). Mentre infatti le scuole primarie sono pressoché gratuite, le scuole secondarie rappresentano per le famiglie una spesa proibitiva. I pochi ragazzi che guadagnano per merito scolastico il diritto di accedere alla scuola governativa, dal costo accessibile, sono costretti a frequentarla lontano dal villaggio natale, e quindi a sostenere elevatissimi costi di vitto, alloggio e di trasporto. Quelli invece che potrebbero frequentare soltanto una scuola secondaria privata, seppur vicina a casa, devono pagare rette annuali onerosissime. In un modo o nell’altro una famiglia media tanzaniana dal reddito di circa 400 dollari all’anno, non può permettersi gli studi secondari dei propri figli. Il risultato è che spesso due o tre famiglie di parenti scelgono di unire le proprie misere finanze e di riservare questo privilegio a soltanto uno tra tutti i loro figli. Purtroppo la moderna vita cittadina richiede questo genere di qualifica per l’assunzione ad un lavoro dignitoso, completando quindi il meccanismo che perpetua la spirale di povertà.



L’istruzione è uno fra i più elementari diritti dell’essere umano e non c’è genitore in Tanzania che non sarebbe disposto a qualunque sacrificio per garantire questo diritto ai propri figli. La considerazione più dolorosa è che quello che è impossibile per due genitori in Tanzania, e cioè il pagamento della retta scolastica per uno dei propri figli, rappresenta uno sforzo assolutamente esiguo per un abitante del mondo cosiddetto evoluto: con 250 euro all’anno si può far fronte a questa spesa e garantire l’istruzione ad uno studente africano. E’ possibile che non si riesca a donare il superfluo per garantire l’essenziale ad un nostro simile?

M.L.

L'Isola di Mbudya

Se per un caso remoto doveste trovarvi nella città di Dar es Salaam con un giorno a disposizione e non sapeste a che santo votarvi, la mossa che mi sento di raccomandarvi è la visita all’isola di Mbudya.
Mbudya è una piccola isola che si trova al largo della capitale della Tanzania, ad un distanza in linea d’aria di due chilometri. Essa fa parte del Parco Marino di Dar Es Salaam insieme alle isole di Bongoyo, Pangavini e Fungu Yasini. Mentre Pangavini e Fungu Yasini sono inaccessibili ai turisti e riservate alla fauna ed alla flora che le abitano, Bongoyo e Mbudya sono agevolmente visitabili in giornata.
In particolare alcuni resort sulle spiagge a nord di Dar (Jangwani Sea Breeze e White Sands) mettono a disposizione dei turisti delle barchette a motore per raggiungere Mbudya ad un prezzo molto contenuto (attualmente circa cinque euro a passeggero per un minimo di quattro passeggeri per i viaggi di andata e ritorno). Il viaggio dura circa venti minuti. Una volta giunti sull’isola non resta che rilassarsi sulla spiaggia bianca e godersi qualche ora di sole ed un bagno nelle acque cristalline che circondano l’isola. Ciò che veramente rende unico questo luogo è l’assoluta vicinanza alla capitale di uno stato, che è l’ultimo posto al mondo in cui ci si aspetterebbe di trovare un paradiso naturalistico tropicale.

La classica ciliegina sulla torta è il pranzo. Alcuni simpatici tanzaniani cucinano il pesce pescato qualche minuto prima e lo servono sotto sgarrupati ma caratteristici banda in makuti (termine tecnico per gazebo in legno e paglia). Il menu è pressoché unico, e cioè pesce alla griglia e patatine, rigorosamente da consumare senza posate e bevendo soda fresca. Per chi l’ha provato, un pasto a Mbudya rappresenta uno dei massimi picchi di godimento vissuti nel corso di una esistenza intera.
Le basse acque intorno all’isola nascondono alcune porzioni della vecchia barriera corallina salvatesi alla pesca con dinamite. E’ consigliato quindi noleggiare l’attrezzatura da snorkeling per cercare questi scogli corallini, dove si possono fare alcuni incontri davvero emozionanti con la vita sottomarina.
Un ulteriore motivo di interesse di quest’isola è la possibilità di avvistare il Granchio Ladro di Cocchi, un enorme paguro terrestre capace di arrampicarsi sulle palme e di rompere con le forti chele le giovani noci di cocco. E’ un animale sensazionale, gravemente minacciato di estinzione.
Mbudya è poco frequentata dai turisti “tutto compreso” che affollano Zanzibar e i parchi del nord, mentre rappresenta l’immancabile punto d’incontro domenicale per tutti gli espatriati che vivono la capitale tanzaniana. Diplomatici, missionari, volontari delle ong, commercianti e imprenditori convergono su questo fazzoletto di paradiso per godersi una giornata di pace lontano dallo smog e dal traffico di Dar. A parte la domenica, in cui si possono incontrare altre persone, durante la settimana Mbudya è deserta.
Purtroppo anche Mbudya può avere qualche controindicazione.
Alcuni mesi, soprattutto da Aprile e Giugno, le correnti spingono verso la spiaggia di Mbudya la spazzatura che si accumula sul litorale della capitale e può capitare di trovare sporche alcuni punti della spiaggia. Il momento migliore per recarsi a Mbudya è sicuramente da Dicembre a Febbraio, quando le acque sono calme e trasparenti e la spiaggia è sgombra di alghe.
Ultimamente viene richiesto con insistenza il pagamento dell’ingresso al parco (16.000 scellini, circa 8 euro). Tra noleggio barca, biglietto d'ingresso al parco marino e pasto si va a spendere circa 20 euro, e una cifra del genere vale sicuramente una giornata come solo Mbudya sa dare.
All’orizzonte si staglia la costa di Dar. Niente di male, se non fosse che un enorme cementificio è stato costruito proprio davanti Mbudya, rovinando parzialmente il panorama: bisogna tenerne conto poi mentre si scattano le foto! La brezza fresca attenua di molto il caldo, e diversi sprovveduti hanno ritenuto di risparmiare la crema solare. Il sole in queste regioni picchia di brutto e molti visitatori sono tornati da Mbudya con scottature colossali!

M.L.

sabato 27 marzo 2010

Povera Agricoltura, Poveri Noi

Comincerò riportando alcuni dati:

_ Il 37,5% della popolazione mondiale trae il proprio reddito dall’agricoltura, ma questa percentuale è la sintesi di estremi diametralmente opposti. E’ la media cioè di paesi come l’Italia in cui solo il 4,2% della popolazione lavora in agricoltura e di altri come il Niger in cui il 90% della popolazione trae dalla terra il proprio sostentamento (fonte: CIA world factbook);
_ Solo il 6% del PIL mondiale deriva dall’agricoltura (fonte: CIA world factbook);
_ Nel 2006 il 6,4% della popolazione europea era impiegata in agricoltura (fonte: Eurostat);
_ Nel 2009 circa il 44% dei fondi dell’unione europea sono stati destinati ad agricoltura e sviluppo rurale (fonte: bilancio UE);

Come si spiega questo ingente dispendio di risorse da parte dell’Unione in un settore così “marginale” da un punto di vista occupazionale? Perché l’Unione Europea dovrebbe impegnarsi così tanto in un ambito che coinvolge così pochi cittadini?
Tutti i fondi che l’Unione Europea destina all’agricoltura diventano aiuti e contributi senza i quali questo settore probabilmente non esisterebbe più in Europa. Questi sussidi, insieme alle barriere commerciali e legislative attuate dall’Unione, consentono agli agricoltori europei di trarre ancora un minimo guadagno da questa attività e di rimanere in qualche modo competitivi sul mercato. Purtroppo questo intervento della politica comunitaria sull’andamento dei mercati e dei prezzi dei prodotti agricoli sta cominciando ad affondare miseramente. Ciò avviene in primo luogo perché anche all’interno dell’Unione a 27 membri ci sono stati in grado di produrre a prezzi decisamente inferiori, e in secondo luogo perché l’organizzazione dei mercati provoca un distribuzione dei profitti lungo la filiera commerciale che penalizza pesantemente i produttori.
L’agricoltura, nonostante gli aiuti, sta vivendo una crisi gravissima ed in molti paesi rischia seriamente di sparire.
A questo punto torniamo alla domanda formulata in precedenza: ma è davvero essenziale un settore che impegna così tante risorse distribuendole su un numero di cittadini così esiguo?
Innanzitutto non si può affrontare questo argomento con gli stessi parametri che si utilizzerebbero per altri settori economici come l’industria o i servizi.
L’agricoltura non è un settore come gli altri.
La società umana così come la concepiamo oggi esiste solo grazie all’agricoltura. Se alcuni uomini non si prendessero carico della produzione di alimenti gli altri non si potrebbero dedicare alla cultura, alla scienza, all’arte, alla politica. Se tutti gli individui che compongono una società (come avveniva ed ancora avviene nelle primitive società di cacciatori-raccoglitori) fossero impegnati nell’approvvigionamento di cibo, quella civiltà non potrebbe progredire. L’innesco allo sviluppo sociale, civile, tecnologico, culturale dell’umanità è stata l’invenzione dell’agricoltura. Essa ha inoltre permesso all’uomo di riunirsi in insediamenti proto-urbani, di concentrare la popolazione in territori limitati consentendo lo scambio di informazioni, la stratificazione sociale, la creazione di eserciti. Le civiltà che per prime hanno scoperto l’agricoltura sono state quelle che sono emerse vittoriosamente nel corso della storia. Il libro “armi, acciaio e malattie” di J.Diamond spiega con grande semplicità queste dinamiche attribuendo all’agricoltura il ruolo chiave nella storia dell’uomo moderno.
L’agricoltura produce riflessi fondamentali su molti aspetti della nostra vita di tutti i giorni. In particolare essa influenza in modo decisivo la nostra cultura, secondo la celebre frase del filosofo Ludwig Feuerbach “Noi siamo ciò che mangiamo”. Noi italiani dovremmo essere i più strenui sostenitori e difensori dell’agricoltura, perché essa rappresenta l’essenza stessa della nostra storia e del nostro presente. E non parlo solo della cucina, aspetto che sappiamo apprezzare e riconoscere forse solo quando ci rechiamo in qualunque altro paese del mondo. Mi riferisco anche al territorio e come l’agricoltura "vesta" il nostro paesaggio. Essa svolge una funzione non solo estetica, ma anche e soprattutto di difesa dei terreni, di regimentazione delle acque superficiali, di razionalizzazione della presenza umana.
Quanta storia è presente nella lavorazione artigianale dei prodotti agricoli, nella realizzazione delle nostre produzioni tipiche che contengono quel sapere artistico che ha fissato nel corso dei secoli i gesti traducendoli poi in tradizioni!
Purtroppo, proprio in Italia l’agricoltura agonizza come in pochi altri paesi del mondo accade.
Concludo con una frase di Norman Borlaug, premio Nobel per la pace : “Non esiste alcun bene che sia più essenziale del cibo. Senza questo le persone muoiono , le organizzazioni sociali e politiche si disintegrano, le civiltà collassano”.
M.L.

giovedì 11 marzo 2010

Starship Troopers

Avete mai visto il film "Starship Troopers" in cui l'esercito della Terra combatte contro insetti giganti alieni che colonizzano i pianeti della galassia? Se sì, bene. Se no e vi piace il genere splatter non potete proprio perderlo.

E' capitato molte volte in Africa che ripensassi a quel film, e questo succedeva ogni volta che ci scontravamo con ostici rappresentanti della Classe Insetti. L'unica differenza con quel film è che i terrestri, cioè noi, ne uscivano invariabilmente sconfitti.

E' stato il caso della Nairobi Fly, minuscolo coleottero del genere Paederus intriso di un veleno (la "pederina") più potente di quello del cobra. All'inizio della stagione delle piogge, per un paio di settimane al massimo, capitava spesso di avvertire un solletico al viso o al collo, e la reazione istintiva era quella di grattarsi tentando di allontanare il fastidioso ed ignoto insetto. I segni di questo incauto gesto divenivano visibili dopo alcune ore. La pelle necrotizzava per poi sfaldarsi in brandelli, come se si fosse subita una brutta bruciatura. Il motivo era che grattandosi si finiva per schiacciare l'insettino, liberando il potente veleno che agiva per contatto. La cosa curiosa era che ad essere più colpiti erano coloro che avevano l'elettricità a casa. La Nairobi Fly infatti di notte viene attratta dalla luce. In questo modo quindi le dermatiti colpivano epidemicamente e selettivamente la parte più benestante della popolazione, mentre i più poveri che vivevano nelle capanne ne rimanevano esenti.



Un altro caso di scontro con insetti ostili ha riguardato le formiche legionarie del genere Dorylus, le temibili "siafu" che tutti in Africa Orientale conoscono e temono più dei serpenti velenosi. Le siafu si muovono sempre in colonne costituite da una moltitudine di individui, ed ogni colonia è costituita da due categorie di formiche. Le operaie, piccole e apparentemente innocue, e le soldato, enormi formiche in grado di infliggere morsi dolorosissimi servendosi delle potenti mascelle. Queste formiche formano a terra una lunga striscia nera della quale non si distingue l'inizio e la fine e che non si arresta davanti a nulla.

La colonia viene difesa in maniera molto efficace dalle formiche soldato, le quali allontanano a suon di morsi qualunque scocciatore. La stretta delle loro mascelle è talmente potente che anche dopo essere state uccise e decapitate non mollano la presa. Non c'è indumento abbastanza spesso da proteggere dal morso. Questi insetti diventano realmente pericolosi quando alla malcapitata vittima viene impedita la fuga. E' quello che è successo in due occasioni, quando nell'azienda del progetto venne ucciso un maiale che aveva problemi agli arti e che non poteva alzarsi e quando nella stalla di casa venne ucciso un capretto neonato, troppo piccolo e debole per sfuggire all'orda famelica.

Il rimedio più comunemente adottato per interrompere l'invasione di queste formiche è quello di spargere intorno alla zona attaccata del cherosene ed appiccare un fuoco in grado di spezzare la colonna di insetti e di farli desistere dai loro propositi assassini.

E questa è la soluzione che scegliemmo anche la volta in cui fui svegliato dal guardiano notturno perché la stalla delle capre stava subendo un attacco da parte delle legionarie. Gli animali, imprigionati all'interno, belavano disperati e impotenti implorando il nostro aiuto per non soccombere all'assalto. Quando entrammo nella stalla gli animali erano già ricoperti di formiche e si dimenavano furiosamente per sottrarsi ai morsi delle formiche soldato. Ci disinteressammo delle capre ben sapendo che se non riuscivamo a fermare la colonna in entrata sarebbero stati perduti. Accendemmo prima alcuni falò intorno alla stalla, congiungendoli poi con ponti di cherosene infiammato. Mentre eravamo intenti ad appiccare i fuochi, venivamo punti a nostra volta e qualunque tentativo di evitare i morsi si rivelava vano, perché le formiche continuavano a colpire anche dopo la morte. Lentamente riuscimmo a creare uno sbarramento all'avanzata della subdola armata, dopodiché ci dedicammo a staccare le formiche che erano rimaste attaccate un po’ ovunque nel corpo.


Non starò a raccontare degli episodi legati ai bruchi giganti che hanno devastato il giardino e l'orto, all'invasione di termiti, alle pulci penetranti, allo scorpione enorme e corazzato che impediva il passaggio o alle cavallette mangiate fritte. Mi sembra di aver già reso sufficientemente l'idea.


M.L.