lunedì 26 settembre 2011

Wajir 1970

I ragazzi con l’eschimo ed i libri in braccio, tenuti a malapena da un elastico, si incamminano verso scuola ed un’interminabile fila di biciclette accompagna  chi si reca al lavoro.
Ci sono ancora le sirene nelle fabbriche che gridano l’inizio e la fine del lavoro, ma si respira aria di cambiamento.
Ragazzi con i capelli lunghi, l’aria sognante di chi immagina un futuro senza guerre e senza competizione e quelli impegnati che credono nella giustizia sociale, nella rivoluzione culturale, da attuare ora e subito, costi quel che costi.
Ma il mattino è giovane e mentre ritorno a casa incontro Renè bella, giovane, longilinea con lo sguardo in un futuro che stenta a venire, che mi racconta di un posto lontano, in Africa,  dove si soffre la fame ed i bambini muoiono, dove c’è guerra e dove la gente ha bisogno di pane ed acqua.
Mani tese sta organizzando un campo di lavoro, una cinquantina di giovani, provenienti da tutto il mondo, mettono a disposizione il loro tempo e la loro esperienza per realizzare un progetto: un villaggio in cui i giovani che riescano a sopravvivere, possano studiare e mantenersi grazie alla coltivazione di un grande orto.
Bisogna costruire dormitori, portare l’acqua da lontano, fare la scuola, le recinzioni e chissà cosa ancora, ma  forse la strada giusta è quella di aiutare chi ti chiede aiuto, porti solo le domande a cui riesci a rispondere con le tue azioni, solo annegando le mani nella farina e facendo fatica ad impastarla riesci a fare il pane.
Ed il pane che cuoci ha finalmente la fragranza di una vita migliore.
Ci prepariamo, ci conosciamo, siamo pronti al grande viaggio.
Ci troviamo tutti a Roma, destinazione Nairobi.
Clima euforico di chi inizia un’avventura che ti segnerà per sempre
Visita alla Consolata a Nairobi e preparazione della spedizione a Wajir. Domani si parte.
La spedizione è composta da tre jeep della Toyota grandi abbastanza da contenere i materiali e tutti noi.
Ci aspettano al campo gli altri ragazzi che sono già sul posto da alcuni giorni.
Siamo seduti in terra, no ci sono sedili sulle auto e la strada è in terra battuta con grandi buche che ci fanno sobbalzare continuamente.
Ci aspettano tre giorni di cammino.
Si fa una sosta in una trattoria sulla strada…  Ovvero una stanza scavata nella terra dove servono pezzi di carne maleodorante su un tavolo di legno. Niente piatti, niente posate, niente tovaglie, si mangia con le mani.
Il risultato è che appena saliti in macchina, dopo pochi chilometri, tutti vomitano anche l’anima.
Guadiamo un fiume senza ponti e passiamo la notte in una missione.
La sera ci fermiamo a guardare la luna e le stelle. Pare di essere in un altro pianeta. Una luna enorme che illumina a giorno il bush, un cielo che ti rapisce e ti insegna a volare. Animali che ti sussurrano cosa vuol dire essere liberi. Sensazioni nuove che ti inebriano, ti sembra di cominciare solo ora a comprendere il senso della vita. Ci voleva l’Africa per capire che l’uomo non domina la natura ma che la sua vita non ha alcun senso al di fuori di essa.
Si riparte su questo sentiero che non finisce mai con gli animali che corrono a fianco della carovana. Il paesaggio sempre uguale.
Si incontrano sporadici gruppi di indigeni che portano a pascolare le bestie. Chiedono acqua come un mendicante chiede l’elemosina.
Gliene diamo quanto più possiamo.
Ci accampiamo con le tende, ceniamo con i cibi in scatola che ci sembrano leccornie e quando il sole spunta prepotente all’orizzonte, ripartiamo.
Stremati dal viaggio finalmente arriviamo a Wajir
Qualche edificio in muratura, qualche tenda ed il bush che si stende all’infinito.
Pochi indigeni e tanti ragazzi bianchi che popolano questo lembo di terra disperso nell’immensità. Accoglienza festosa, ci assegnano i posti dove dormire e si fa il primo briefing.
Progetto ambizioso: Costruire un villaggio per i ragazzi sopravvissuti, portare l’acqua e irrigare alcuni campi in modo che i ragazzi possano studiare e mantenersi coltivandoli.
Nel raggio di 1000 Km non esiste nessuno dedito all’agricoltura ma sono solo piccole tribù che praticano la pastorizia.
Come fantasmi venuti dal nulla, arrivano da tutte le direzioni, al tramonto, quando il sole diventa rosso e la terra si prepara a riposare nell’oscurità della notte.
Magri, macilenti, non si sa da dove e dove passano il resto della giornata, arrivano e basta.
Si mettono in cerchio intorno al grande albero che troneggia al centro del villaggio, unico essere vivente che sprezzante delle difficoltà umane, ricorda a tutti l’immanenza della vita.
Occhi grandi, mani vuote, non chiedono, ma protestano il diritto alla vita solo con la loro silenziosa presenza.
Donne sole che portano con se piccoli uomini aggrappati alle loro povere vesti.
Anche loro non chiedono, hanno invece qualcosa da vendere: la loro dignità. Anche se allo stremo delle forze, proteggono la giovane vita a loro affidata, prima che la loro stessa vita.
Spesso i bimbi muoiono, ma non ci sono lacrime o disperazione, la morte fa parte della vita, ci viene data e ci viene tolta indipendentemente dalla nostra volontà.
Un fatalismo non cinico ma legato all’eterno ciclo della natura.
Solo così si comprende che la morte non è l’inizio di un’altra vita né la negazione della vita stessa, ma fa parte di un disegno naturale, di un ciclo a cui siamo chiamati ad assoggettarci, con lo spirito di chi si affida a quel mistero che tutto comanda.
Alla fine dominare la natura è una mera illusione dei popoli che si ritengono evoluti. E’ lei la nostra madre, senza di essa si perde il senso e l’essenza della vita stessa.
Le ragazze preparano un pastone in un’enorme pentola poggiata su pietre.
Sotto, il fuoco rosso come il sole, scalda il povero pasto che spesso non riuscirà a saziare.
Aspettano con infinita pazienza che venga distribuito, si presentano con ciotole di latta o barattoli raccattati chissà dove e si ritirano quasi nascondendosi a consumare quel pasto che è per loro speranza di vita.
Poi spariscono così come sono comparsi, nel nulla.
I bambini non si possono toccare, non si può dare loro il benché minimo segno di affetto pena il trovarli il giorno dopo pieni di lividi o addirittura morti. Gli altri bambini li aggrediscono perché non capiscono perché a quello si da affetto ed a loro no. Fa parte della natura umana il senso di giustizia, e non potendo dare a tutti lo stesso affetto, ci si deve rassegnare a non darlo a nessuno.
Si lavora alacremente, per quello che le forze ti consentono, ad una temperatura che nelle ore di punta sfiora i 50 gradi all’ombra
Arrivano spesso i soldati ed ispezionano il campo, vogliono essere sicuri che non ci siano armi e ci trattano male ed a volte ci minacciano. Non capiscono cosa ci facciamo sul loro territorio.
Con un piccolo aereo sgangherato che non vuole mettersi in moto, partiamo alla volta di Nairobi, qualche giorno per i souvenir e poi l’aereo che parte per riportarci a casa.
Stanchi, provati, ma ho avuto molto più di ciò che ho dato, insegnamenti che mi hanno accompagnato per il resto della mia vita.
Ho compreso poche cose:
cos’è la dignità
Il senso del tempo, entità effimera
La morte come valore di vita
la centralità della natura
voler dare vuol dire poter ricevere

Testimonianza scritta da Leandro Calvino, volontario a Wajir nel 1970.

1 commento:

DALAHOW ha detto...

Nice. please send your pictures in Wajir, Kenya. Thanks