domenica 14 ottobre 2012

Zanzibar, Anno 1690

Finalmente, di prua, apparve Unguja. Il gruppo comprendeva altre due isole più piccole, Pemba e Latham, ma quando i marinai parlavano di Zanzibar, di solito si riferivano a quell’isola. Era sormontata da una massiccia fortezza, costruita con blocchi di corallo bianco scintillante che splendevano al sole come un iceberg. I bastioni erano fitti di potenti cannoni. [...] Lo specchio d’acqua era congestionato da una massa d’imbarcazioni munite di alberi a prora e a poppa, ancorate in un disordine incredibile. Alcuni dei dhow oceanici erano grandi come la Seraph: appartenevano ai commercianti giunti fin lì dall’India, da Muscat e dal mar Rosso. Non c’era modo tuttavia di capire se fossero pirati: probabilmente lo erano tutti, se si presentava l’occasione. […]

Passando sotto la fortezza, ammainò i suoi colori in omaggio al rappresentante del sultano, poi diede fondo al limite della gittata delle batterie di cannoni. Aveva imparato da tempo a diffidare anche del più caloroso e aperto benvenuto di quello staterello africano.
Non appena furono ancorati, uno sciame di piccole imbarcazioni si fece avanti per salutarli, offrendo merci per alimentare qualunque vizio o esigenza, dalle noci di cocco verdi agli involti di foglie e fiori di bhang, che erano una droga, dai servizi sessuali di schiavetti e schiavette dalla pelle scura agli aculei di porcospino pieni di polvere d’oro. […]
La barca li depositò sul molo di pietra sotto le mura spesse e bianche del forte. Aboli apriva la strada tra la folla di mercanti oziosi, addentrandosi nel dedalo di viuzze e vicoli che consentivano appena il passaggio di tre uomini affiancati.
Il fetore delle fogne a cielo aperto che scendevano verso il porto era tanto forte da far salire il vomito in gola a Hal. Il caldo, nei punti in cui non arrivava la brezza, era soffocante, e si ritrovarono il dorso della camicia intriso di sudore prima di avere percorso un centinaio di passi. Alcuni degli edifici erano alti tre piani, e nessuna delle pareti era a filo; sporgevano e si gonfiavano verso l’esterno, quasi incontrandosi in alto. Dai balconi superiori, chiusi da intricati schermi traforati di assicelle, creature femminili senza volto, avvolte in veli neri, li sbirciavano attraverso le cortine dello zenana, l’appartamento riservato alle donne in ogni casa musulmana.
Era la stagione dei monsoni, che attirava mercanti di schiavi provenienti da tutte le regioni estreme dei Paesi orientali. Aboli li guidò attraverso il mercato degli schiavi; era un grande suk a cielo aperto, riparato però da un boschetto di baniani, dai grandi tronchi serpentini e dal fitto fogliame verde scuro.
Gruppi di schiavi in vendita erano accovacciati all’ombra delle larghe chiome degli alberi. Hal sapeva che erano stati incatenati il giorno stesso della loro cattura nel cuore del continente africano e non erano più stati liberati, né durante il lungo e massacrante viaggio fino alla costa né una volta giunti ai recinti, riservati appunto agli schiavi, a bordo dei dhow che li avevano trasportati attraverso il canale. Alcuni degli uomini erano marchiati a fuoco sulla fronte, con la cicatrice ancora rosea, rimarginata da poco. Quei segni indicavano che erano stati castrati nei recinti degli schiavi, sulle spiagge del continente, ed erano destinati al mercato in Cina. Infatti l’imperatore cinese aveva decretato che non fossero importati schiavi neri che potessero imbastardire la purezza del suo popolo. Il prezzo di quegli eunuchi era quasi doppio, a causa delle perdite dovute alla natura rudimentale dell’operazione chirurgica e della cauterizzazione. 
Gli acquirenti giunti dalle navi nel porto stavano esaminando le offerte e contrattando con i negrieri, vestiti di tuniche lunghe fino alla caviglia, col copricapo composto da un telo di stoffa avvolto intorno alla testa. Hal si fece largo a spallate per entrare nel labirinto di vicoli dalla parte opposta del suk.
Sebbene fossero passati quasi vent’anni, Aboli li condusse senza il minimo errore fino alla massiccia porta di mogano che si apriva sulla strada chiassosa. Era tempestata di borchie di ferro e intagliata con versetti del Corano e intricati disegni di gusto islamico in cui non erano rappresentate figure di uomini o animali, segni d’idolatria. Uno schiavo abbigliato con una lunga tunica e un turbante di colore nero venne ad aprire.

Testo tratto da “Monsone”, di Wilbur Smith.

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