mercoledì 5 settembre 2018

La lentezza è equilibrio, la noia è armonia

Il grande salone rifiuta la luce già aggressiva delle otto del mattino. Jean-Claude mescola i chicchi nel piatto trasparente in cui navigano polpette di riso. Mi porge una tazza di plastica arancione colma di caffè: se la guardo dall'alto mentre la reggo tra le mani penso a un girasole. L'amministratore Jean-Claude dice di essere felice di averci al suo fianco durante questa trasferta. "Sambatra izahay koa" anche noi siamo contenti. Sono ormai la le 9:30 quando la Nissan Patrol bianca abbandona il parcheggio del seminario, direzione Ankadinondry. Una bandiera bianca e gialla ondeggia sul tetto
dell'autovettura: ne osservo i lembi visibili dal mio sedile, rapita dalla lentezza dei suoi movimenti nonostante la grande velocità che ci trasporta. "Sembra ci abbiano riservato un'accoglienza non indifferente" biascica l'amministratore tra una telefonata e l'altra. È un corridoio largo: a terra c'è un tappeto di terra rossa. Jean-Claude è vestito di nero ed indossa grandi occhiali da sole, io e Roberto lo seguiamo. Saranno state duecento, trecento, forse quattrocento persone, in piedi come alberi lungo il viale e a mani giunte come statuette da credenza. Stringo almeno cento mani: ruvide, appiccicose, di bimbo, di età, alcune morbide, lisce ma vigorose, altre quasi inermi. Le due file di persone sono come ballerini prima di una quadriglia: dopo il nostro passaggio si avvicinano, le
immagino come il sipario variopinto di un teatro con il soffitto alto. Riconosco il canto che le Soeurs Marie Magnificat intonano alle 5 del mattino per le lodi; le mani che prima ho conosciuto, si abbandonano a ritmici applausi. "Tonga Soa" (Benvenuti) è scritto in blu su un drappo bianco alla fine del nostro corteo. Ankadinondry è un villaggio piccolo, in cui bastano pochi raggi di sole per conferire l'opprimente sensazione di desolazione che percepisco mentre la attraverso. Oggi è giornata di mercato: teli di soffitta sono stesi sull'erba appuntita, attraenti cesti di riso sono contenitori di mani consumate. Immagino il profumo delle spezie rosse e gialle che impreziosiscono una borsa fitta di vimini; sono come al porto di Rimini alle sette del mattino, tradita dall'odore pungente che non si limita alla bancarella del pesce essiccato. La luce tagliente mi dirotta verso grandi ciotole in acciaio; contengono una semisfera verde abete scalfita da un cucchiaio per la zuppa: penso sia la spirulina, quell'ingrediente che ogni mattina a colazione tinge di verde la porzione di riso di suor Emá. È ormai ora di nuvole rosa quando giungo in un grande campo che funge da piazza di Ankadinondry; attraverso con un salto azzardato uno specchio di acqua di fango e raggiungo un piccolo tavolino, simile a quelli in plastica che usiamo da piccoli per colorare dentro i contorni. Sul tavolo luccicano lame di forbici e le ginocchia di un uomo col mantello bianco sono scomodamente intrecciate come gomitoli. Il barbiere accarezza il suo volto segnato dalle stagioni con la maestria del professionista. La moglie mi osserva con un viso rilassato e la spallina dell'abito abbassata, intenta a nutrire il piccolo fagottino avvolto in uno strofinaccio da cucina. Passerò la notte ad Ankadinondry; prima di poggiare le guance sul cuscino ruvido di federa da divano, decido di regalarmi qualche stereotipato minuto sul balcone. I miei occhi sono ampolle che riempio gelosamente di Croce del Sud; penso a chi ha lasciato il pianeta senza poterla conoscere. Unisco i puntini luccicanti ricamati su seta nera: le stelle disposte in verticale terminano con il mio indice, collegato al petto. Domani ha inizio la mia terza settimana nel paese di Mena Fasika (sabbia rossa): due settimane per trasformare la lentezza in equilibrio, la noia in armonia. Il silenzio che mi accarezza è a forma di aria fredda. Le gemme di ombra che immagino verdi scricchiolano nostalgia.
ANNA

1 commento:

Unknown ha detto...

Riesci a rendere bello anche ciò che non è. Elio e Mira.